LIBRO I
CAPITOLO I
1. Io non ritengo di poter essere da alcuno ritenuto presuntuoso, se spontaneamente assumo l'ufficio di insegnare ai miei figli, dal momento che il maestro dell'umiltà ha detto: Venite, figlioli, ascoltatemi, ed io vi insegnerò il timore del Signore (Sal 33, 12): nelle quali parole possiamo scorgere sia l'umiltà del suo decoro, sia la sua grazia. Pere questo motivo dicendo, timore del Signore, timore che sembra sia comune a tutti, espresse un notabile insegnamento di modestia; e essendo tal timore anche principio di sapienza e motivo della beatitudine, perciò quelli che temono Dio, sono beati, evidentemente si mostrò insegnare la sapienza, e dimostrarne il modo di acquistare la beatitudine.
2. Anche noi dunque, diligenti ad imitare la modestia, non ci usurpiamo la grazia conferita; cose concesse a lui dallo spirito della sapienza diamo a voi come a figliuoli quelle cose che egli ha manifesto da noi sono state ritrovate vere mediante l'esperienza e l'esempio; non potendo ormai più schivare l'ufficio dell'insegnare impostoci ( quando lo fuggivamo) dall'ordine del Sacerdozio. Poiché (Ef 4, 11) Il Signor Iddio ha instituito alcuni Apostoli, alcuni altri Profeti, alcuni Evangelisti, finalmente certi altri P astori, e Dottori.
3. Io dunque non mi attribuisco la gloria degli Apostoli, perché chi lo potrebbe, eccetto coloro che dal Figliuol di Dio furono eletti ? Non mi usurpo la grazia dei Profeti, non la virtù degli Evangelisti, non la vigilanza dei Pastori, ma solamente desidero di conseguire l'intelligenza e diligenza circa le Scritture Divine, la quale tra gli altri uffici dei Santi fu posta dall'Apostolo nell'ultimo luogo; appunto per poter imparare allo scopo d'insegnare agli altri. Perché un solo fu quel vero Maestro, che non ebbe bisogno d'imparare quello, che egli a tutti gli uomini insegnò. Ma gli uomini prima imparano quel, che hanno da insegnare, e da lui prima apprendono quello che poi agli altri devono insegnare.
4. A me, poi, non capitò neppure questo. Poiché rapito al Sacerdozio dai Tribunali, e dall'insegne della corte ho cominciato ad insegnare a voi quello, che io non ho fino a qui da me imparato. Pertanto comincerò prima ad insegnare, che ad imparare. Mi bisogna dunque in un medesimo tempo imparare, e insegnare perché non ho avuto, tempo d'imparare, prima. E per profitto grande che si sia fatto, è che non abbia bisogno di imparare mentre ch'è vive.
CAPITOLO II
5. Ma che ? abbiamo noi sopra tutte le cose ad imparare altro che il tacere per poter parlare, a questo non mi condanni prima la mia voce, che l'altrui mi assolva? Poiché egli è scritto; (Mat, 11, 37) Dalle tue parole sarai condannato, Che bisogno c'è dunque, che tu ti affretti di sottometterti al pericolo d'esser condannato col parlare, potendo star molto più sicuro col tacere ? Ho veduto molti parlando incorrere in errore; tacendo appena alcuno vi incorse. Pertanto è più difficile il saper tacere, che il parlare. Io so che molti parlano, e non sanno star cheti. È («S'. Ambr. ipso de Virginis. Lib. I. c. i.) cosa rara che uno taccia, quando non gli giova affatto il parlare. È dunque savio chi sa tacere. Infatti la sapienza di Dio ha detto (Is 50, 4.): II Signor mi ha concesso la lingua erudita, affinché io sappia parlare, quando sia opportuno. Meritamente dunque è savio quello, che dal Signor Dio ha ricevuto il lume per discernere in qual tempo gli si convenga parlare. Poiché dice bene la Scrittura (Eccli. 20. 7.) : L'uomo savio tacerà fino che sia tempo.
6. E però i Santi del Signore, che sapevano che la voce dell'uomo è per lo più messaggera del peccato, e che il principio dell'errore umano è il parlare dell'uomo, amavano il silenzio. Finalmente il Santo del Signore diceva (Sal 38, 1.): Ho detto, io custodirò le mie vie, affinché non pecchi con la lingua mia. Perché sapeva, ed aveva letto che dipende dalla protezione divina, far, che l'uomo si sottragga dal flagello della sua lingua, e dal testimonio di sua coscienza. Poiché noi siamo tormentati dal tacito obbrobrio dei nostri pensieri, e dal giudizio della coscienza; siamo ancora percossi dal suono della nostra voce, quando parliamo quelle cose, col suono delle quali si percuote l'animo nostro, e s'impiaga la mente. E chi è quelli che abbia il cuore mondo dalla bruttura dei peccati, o non erri per mezzo della tua lingua? Per questa ragione dunque perché sapeva, che nessuno può conservare casta la bocca dalla sozzura del parlare, si impose col silenzio legge d'innocenza, affinché tacendo potesse schivare quel vizio, nel quale, parlando, facilmente sarebbe incorso.
7. Udiamo dunque il Maestro, che insegna dal guardarcene. Ho detto: io custodirò le mie vie, cioè io mi sono imposto un tacito comandamento col pensiero di conservare le mie vie. Altre sono le vie, che noi dobbiamo seguire, altre quelle, che noi dobbiamo custodire. Seguire dobbiamo le vie dei Signore; custodite le nostre, perciò non s'incamminino verso il peccato. E quelle puoi custodire, se tu non farai presto nel parlare. La Legge dice: (Deut 6. 3.) Ascolta Israele il tuo Signore Iddio. Non dice, parla, ma ascolta. Però cadde Eva, perché ella parlò al marito quel, che non aveva udito dal suo Signor Dio. La prima voce di Dio ti dice: Od ; se tu udirai, custodirai le tue vie, e cadendo, correggiti presto. ( Sal 118. 9. ) E come corregge il giovanetto la sua via, se non coll'osservare le parole del Signore? Taci dunque prima, e ascolta, affinché non erri con la tua lingua.
8. O grave danno, che si debba esser condannato per la propria bocca. E se egli si deve rendere ragione (Mat 12, 36) delle parole oziose, quanto maggiormente delle sporche e brutte? Poiché quelle sono molto più gravi, che le oziose. Se dunque della parola oziosa ne è domandato conto, quanto maggiormente si pagherà la pena dell'empio parlare?
CAPITOLO III
9. Che dobbiamo dunque fare! È forse di mestieri che noi siamo in silenzio? Non già; poiché (Eccle. 3, 7) c'è tempo per tacere, e un tempo per parlare. Inoltre se noi abbiamo a render ragione delle parole oziose, facciamo di non avere a render conto dell'ozioso silenzio. Perché egli si trova una taciturnità di tal sorta, che è grande, e che opera pur assai, come era quella (Dan, 13, 3) di Susanna, la quale col tacere operò molto più che se ella avesse parlato; perché col tacere davanti agli uomini parlò con Dio, né trovò maggior testimonio della sua castità, che il silenzio. Parlava la coscienza là, dove non si udiva la voce, né cercava in suo favore il giudizio degli uomini, avendo la testimonianza di Dio. Da quello dunque voleva esser assolta, il quale ella sapeva in nessun modo poter esser ingannato. Lo stesso Salvatore nostro ( Mat, 26, 63 ) nel Vangelo altresì tacendo operava la, salute di tutti gli uomini. Ben dunque Davide non s'impose silenzio perpetuo, ma una guardia del parlare.
10. Abbiamo pertanto cura del nostro cuore, custodiamo la nostra bocca. Perché l'uno, e l'altro è scritto: qui, che noi custodiamo la bocca; ed altrove (Prov 4, 23) ti è detto; Con ogni custodia abbi cura del tuo cuore. Se Davide ne aveva custodia, tu non ne avrai? Se Isaia aveva le labbra immonde, che disse (Is 6, 5) : O misero me, che son macchiato, ed ho i labbri immondi. Se il Profeta del Signore aveva le labbra immonde, in che modo l'avremo pure noi ?
11. Ed a chi ha egli scritto, se non a ciascuno di noi: (Eccli, 28, 29) Circonda con spinose siepi il tuo podere; lega l'oro, e l'argento tuo, chiudi la tua bocca con una porta e un catenaccio e pesa le tue parole sulla stadera. Il tuo podere non è altro, che la tua mente: il tuo oro è il tuo cuore; il tuo argento significa il tuo parlare. (Sal 11, 7) I detti del Signore son detti mondi, argento purgato col fuoco. Inoltre il buon podere non è altro che la buona mente; e
finalmente il prezioso podere non è altro, che l'uomo puro. Circonda dunque di siepi quel podere, e circondalo de tuoi pensieri come d'un vallo, fortificalo di spinose ansietà, affinché non facciano impeto in lei, e lo soggioghino le irragionevoli passioni del corpo, né vi scorrano i movimenti gravi, né finalmente portino via la sua vendemmia tutti quelli, che passano per la strada. Conserva il tuo uomo interno, non lo dispregiare, non lo avere in fastidio come cosa vile; che egli è un prezioso possedimento, e mestamente preziosa, per esser i suoi frutti, non caduchi e temporali, ma stabili e di eterna salute. Coltiva dunque il tuo possedimento, affinché tu lo mantenga.
12. Contieni il tuo parlare, che non sia soverchio o lascivo, e col troppo eccedere non si accumulino peccati. Sia ristretto e chiuso dentro alle sue rive; perché il fiume che trabocca, presto raccoglie il fango. Raffrena il tuo senso, che non sia troppo libero e sciolto, affinché non si possa dire di te (Is 6, iuxta versionem LXX. Interpretum): Non vi si può porre impiastro, né olio, né falciatura, La sobrietà della mente ha i suoi freni, coi quali si regge, e si governa.
13. Sia sulla tua bocca una porta, affinché si chiuda dove bisogna, e si serri più diligentemente, affinché nessuno ecciti la voce tua ad ira; né tu renda villania per villania. Avete oggi udito leggere (Sal 4, 5): Adiratevi, e non vogliate peccare. Dunque se non ci adiriamo per esser l'ira affezione della natura, e non in nostro potere, non ci lasciamo uscir di bocca alcuna parola mala, per non incorrere nel peccato. Ma tieni alle tue parole il giogo, e la stadera; cioè l'umiltà, e la misura; che la tua lingua sia sottoposta alla mente. Sia trattenuta con la briglia: abbia i suoi freni, coi quali si possa limitare. Escano da lei parole a misura pesate con la bilancia della giustizia, affinché sia gravità nel senso, peso nel parlare, e modestia nelle parole.
CAPITOLO IV
14. Chi osserva queste cose, diventa benigno, mansueto, e modesto, perché col custodire la sua bocca, col raffrenare la sua lingua, né parlando prima, da altri sia domandato; e che si siano esaminate, considerate, e pesate le parole: se questo si deve dire o no; se si deve dire contro a costui; quando è tempo di dirlo; questi certamente esercita la modestia, la mansuetudine, e la pazienza: sicché non parli mosso da sdegno e da ira; non, dia segno ancora nelle sue parole di passione alcuna; non manifesti col suo parlare ardore di libidine, e nel suo parlare non agisca l'impulso della collera. Eviti insomma che il suo discorso che dovrebbe offrire una favorevole immagine del suo animo, manifesti apertamente qualche difetto nel suo carattere.
15. Perché allora principalmente tende agguati l'avversario, quando egli vede generarsi in noi qualche passione: allora muove l'inclinazione, e prepara i suoi lacci. Poiché meritamente ( siccome voi avete oggi udito leggere ) dice il Profeta ( Sal. 90, 3.): Che egli mi ha liberato dal laccio del cacciatore, e dall'aspra parola. Simmaco disse, una parola da aizzare; altri parola che sconvolge. Il nostro parlare è un laccio del nostro avversario, ma egli stesso non ci è meno nemico. Spesse volte diciamo quello, che dal nostro nemico viene raccolto, e ci ferisce quasi col nostro stesso coltello. Quanto sarebbe più facilmente da tollerare perir piuttosto con l'altrui spada, che con la nostra.
16. Spia dunque l'avversario le nostre armi, e brandisce le Tue. Se egli mi vedrà muovere, getta i suoi aculei per destare i semi delle discordie. Se io dirò una parola meno che onesta, tira il suo laccio. Alle volte mi adesca con la possibilità della vendetta, affinché mentre desidero di vendicarmi, da me medesimo entri nel laccio, e mi leghi col nodo della morte. Se qualcuno sente questo tal nemico esser presente, allora molta più cura deve avere alla sua bocca per non dargli occasioni. Ma non sono molti quelli che lo vedono.
CAPITOLO V
17. Ma ancora da quel nemico che si può vedere bisogna guardarsi, chiunque egli sia che ci aizza, e ci incita, ci esasperi, o ci pone avanti agli occhi desideri di lussuria o di libidine. Quando dunque alcuno dice a noi villania, ci ingiuria, ci provoca alla violenza, ci chiama a parole ingiuriose; allora conserviamo il silenzio: allora bisogna che non ci vergogniamo di diventar muti, perché chi ci provoca, che ci fa ingiuria, è peccatore, e desidera che diventiamo simili a lui.
18. E però se tu stai cheto, se tu fingi di non vedere, o di non udire, dice solitamente: Perché non parli? Parla, se ne hai il coraggio; ma tu non l'hai, sei muto, ti ho fatto chetare? Se taci, scoppia ancor più di rabbia, si ritiene vinto, deriso, trascurato, beffato. Se tu rispondi, gli pare di essere al di sopra, avendo trovato un suo pari. Perché se tu non gli risponderai, si dirà: A costui è stata detta una villania; ma egli non l'ha stimata. Se tu gli rispondi per le rime, si dirà: si sono oltraggiati l'un l'altro. Ambedue ritraggono biasimo, nessuno è assolto. Quello dunque si sforza di stuzzicarmi perché io parli simili a lui. Ma l'ufficio di un giusto è fingere di non udire, non rispondere cosa alcuna, tener buon frutto della sua coscienza, rimettere più al giudizio dei buoni, che all'insolenza di un ghiotto, contentarsi della gravità dei suoi costumi. Che questo ( Sal. 38, 3. ) è tacere i suoi beni, perché colui che è consapevole di non aver errato, non si deve muovere per le cose false, né stimare che valga più un mal detto di un altro, che il suo proprio testimonio.
19. Così facendo viene ancora a conservare in un medesimo tempo l'umiltà. Ma se non vuol sembrare umile, si rivolge per la fantasia tali parole, e dice a se stesso: dunque questi mi disprezza e sfacciatamente mi dice contro tali parole, come se io non potessi aprir bocca. Perché non dico anch'io di quelle cose spiacevoli? Costui dunque ha ardire di inguaiarmi, come se io non fossi altresì uomo, come se io non me ne potessi vendicare? Questi dice verso me parole tanto brutte, come, se io non potessi dirne delle più vituperevoli contro di lui.
20. Chi dice, o pensa tali cose non è mansueto, non è umile, non è senza tentazione. Il tentatore lo travaglia. Egli gli mette innanzi simili tentazioni. Il più delle volte piglia un uomo, e gli pone innanzi uno spirito maligno, che gli dica quelle cose. Ma tu hai a tenere il piede fermo sulla pietra E se un servo dice villania, il giusto tace. E se un infermo gli fa qualche stranezza, il giusto non parla: se un povero gli dice vituperio, il giusto non risponde. Queste sono le armi del giusto, vincere col cedere: siccome gli arcieri esperti nel saettare sogliono vincere cedendo, e fuggendo ferir con più gravi percosse chi gli seguita.
CAPITOLO VI
21. Che? Bisogna dunque commuoversi, quando ci è detta villania? Perché non imitiamo quello che diceva ( Sal. 38, 3): Io ammutolii per lo silenzio, e mi sono umiliato, e tacqui i miei pregi. Forse Davide si limitò a dire queste parole senza metterle in atto? No, al contrario, agì in modo conforme alle sue parole. Infatti dicendogli villania Semei ( 2. Reg. 16, 7 ss.) figliuolo di Gemini, taceva Davide e benché si trovasse allora accerchiato dalle sue proprie guardie armate non gli rispondeva, non cercava di vendicarsi; anzi al figlio di Saruja, che voleva vendicarlo, non lo permise. Andava dunque come muto e umiliato; andava in silenzio, né si commuoveva, quando era chiamato uomo micidiale, come chi era ben consapevole della sua mansuetudine. Non si turbava dunque per le villanie, essendo certo della moltitudine delle sue buone opere.
22. Pertanto chi si commuove presto per una ingiuria, si mostra degno di essa mentre si ingegna di provare il contrario. Meglio dunque fa chi non cura d'esser ingiuriato, che chi se ne duole, perché chi non ne tiene conto, non ne fa altra stima che se egli non sentisse; ma chi se ne duole, è tormentato come colui, che ha sentito.
CAPITOLO VII
23. Non senza considerazione, scrivendo a voi miei figliuoli, mi son servito del proemio di questo Salmo (Sal 38,1 ), che il Profeta David diede a cantare al Santo Iditum. Io vi conforto ad attenderlo, dilettatomi nel profondo senso di quello, ed altresì nella virtù delle sentenze che vi sono dentro poiché tra quelle cose, che noi brevemente fino a qui abbiamo toccato, si è considerato insegnarvi in questo Salmo e la pazienza del tacere, e l'opportunità del parlare, e nel rimanente poi il disprezzo delle ricchezze; le quali cose sono grandissimi fondamenti delle virtù. Mentre dunque che io considero questo Salmo, m'è venuto nell'animo di scrivere degli Uffici.
24. Sebbene certi filosofi ne abbiano scritto, siccome Panezio, ed il suo figliuolo tra Greci e Cicerone tra Latini; non mi pare sconvenevole al grado nostro altresì scriverne, e siccome Tullio per ammaestrare il figliuolo, io ancora per erudir voi miei figliuoli; perché io non v'amo punto meno, avendovi generati nel Vangelo, che se io vi avessi acquistati col matrimonio. Né è più veemente la natura ad amare, che la grazia. Certamente noi dobbiamo amar molto più quelli, coi quali noi pentiamo d'aver a star in perpetuo, che coloro, coi quali abbiamo a conversar solamente, in questo secolo. Quelli degenerati nei modi, che e fanno vergogna al padre; e voi siete da noi eletti per esser amati. Quelli sono finalmente sono amati per necessità, la quale none maestra molto a proposito, né molto durabile a far amare in perpetuo. Voi per elezione, per la quale s'aggiunge alla carità grave peso a fortificar tal amore; approvar, cioè quelli, che tu ami, ed amar quelli, che tu hai eletti.
CAPITOLO VIII
25. Poiché egli è convenevole quanto alle persone, ed a me scrivere, ed a voi udire, veggiamo al presente se la cosa stessa, cioè scriver degli uffici sia ella a proposto, e se questo nome è atto solamente alle filosofiche scuole, o si ritrovi ancora nelle Scritture divine. Pertanto oggi mentre che da noi si lesse il Vangelo, a proposito (quasi confortandoci a scrivere) ci offrì lo Spirito Santo un luogo, col quale ci confermassimo, che ancora tra noi si convenga questa parola ufficio. Poiché essendo ammutolito il Sacerdote Zaccaria nel Tempio, né potendo parlare dice il Vangelo ( Lc 1,23), che adempiendosi i giorni del suo ufficio, se ne andò a casa sua. Leggiamo dunque che da noi si può convenevolmente dire ufficio.
26. Né la ragione l'abborrisce, per questo noi pensiamo ufficio esser detto ab efficiendo, cioè dal fare quasi efficium; ma poi per ornamento del parlare, mutata una lettera, chiamarsi officium, o veramente, perché, quelli si devono fare quelle cose, che non danneggino alcuno, e giovino a tutti.
CAPITOLO IX
27. Giudicarono che (Cic. lib. I, Offic ) gli uffici derivassero dall'onesto, e dall'utile, e di questi due si eleggesse quel che è migliore. In oltre che se egli accadesse talora che concorrano due cose oneste, e due utili, allora si cerchi qual delle due è più onesta, e qual è più utile. Primariamente dunque l'ufficio si divide in tre parti: nell'onesto, e nell'utile, ed in quel che dei due è migliore. Di poi questi tre si dividono in cinque aspetti: in due onesti, in due utili, e nel giudizio dell'eleggere. Le prime dunque dicono appartenersi all'onore, e all'onestà della vita; le seconde i beni della vita, alla potenza, alla roba, alle ricchezze, alle facoltà; ed esser ancora il giudizio dell'eleggere: e questo secondo la divisione loro.
28. Ma noi non misuriamo l'onesto, e quel che è convenevole se non con la regola più delle cose future, che delle presenti, e nulla definiamo utile se non ciò che ci giovi alla grazia per la vita eterna, non quello che serva a comodi, e diletti della presente. Né vediamo alcun vantaggio nelle facoltà, e nell'abbondanza delle ricchezze; anzi le reputiamo incomodi se non vengono disprezzati, e le giudichiamo più di peso quando si hanno, che di danno quando si spendono.
29. Non è dunque superfluo questo nostro scrivere, perché noi misuriamo l'ufficio con norma molto diversa dalla loro. Quelli pongono tra beni le comodità di questo secolo, laddove noi anzi li reputiamo danni: perché chi riceve quaggiù beni, come quel ricco, di là è tormentato, e (Lc 16,25) Lazzaro che sopportò qui molte avversità, trovò di là grandissimi conforti. Inoltre quelli che non leggono i loro scritti, leggeranno i nostri, se vorranno: quelli, dico, che non cercano la copia delle parole, né l'arte del dire, ma solamente la semplice grazia delle cose.
CAPITOLO X
30. Nelle nostre Scritture siamo istruiti ed educati, esser posto nel primo luogo il decoro, leggendo: ( Sal 64,2) A te, 0 Dio, si conviene la lode in Sion. E l'Apostolo dice: (Ad Titum 2, 1) Parla quelle cose, che convengono alla sana dottrina, ed altrove: (Ad Hebr. 2. 12) Era cosa convenevole, che quello, per mezzo del quale son tutte le cose, e in grazia del quale son tutte le cose; avendo egli condotti molti figlioli nella gloria, come autore della salute loro fosse mediante la Passione perfettamente esaltato.
31. Fu egli forse Panezio, o Aristotele, che ancora egli disputò dell'ufficio, prima di Davide, quando e Pitagora stesso che si legge essere stato più antico, che Socrate, ad imitazione del Profeta(Sal 38, 2) Davide impose legge di silenzio ai suoi? Ma egli per proibire ai suoi scolari l'uso del parlare per cinque anni; e Davide non per diminuire il debito della natura, ma per insegnare il tempo e il modo del parlare. E Pitagora per insegnar loro parlare col silenzio; Davide per insegnarci meglio a parlare col parlare a tempo. Perché in qual modo si può egli acquistare la Dottrina senza esercizio? E che progresso si può egli fare senza esperienza?
32. Chi vuol ben possedere l'arte militare, continuamente si esercita alle armi, e quasi che allora sia per venire alle mani, sa quasi un principio alla battaglia, e come se egli avesse avanti agli occhi il nemico, si mette innanzi, e fa prova delle sue braccia: e come le trova atte alla maestria, ed alla forza del lanciare un'asta, o sfugge i colpi dell'avversario, o con vigilante occhio li schiva. Chi dà opera a guidar col timone una nave in mare, o condurla coi remi, prima anticipa d'esercitarsi nei fiumi. Quelli che studiosamente cercano la soavità del cantare e l'eccellenza della voce, prima a poco a poco eccitano la voce col canto. E quelli che con le forze del corpo, e legittima lotta cercano d'essere coronati; indurando le membra col quotidiano esercizio della palestra; nutrendo la pazienza si avvezzano alla fatica.
33. E la natura stessa ce lo insegna a proposito dei piccoli fanciulli che prima vanno ritrovando i suoni delle parole per imparare a parlare. Pertanto il suono è un certo esercizio, e una palestra della voce. Così dunque quelli, che vogliono imparare a parlar cauti, non neghino quello che è naturale, ed esercitino quello, che all'accorgimento appartiene, come quelli che essendo di vedetta, bisogna che si impegnino ad osservare attentamente, non a dormire. Perché ciascuna cosa, infatti, si accresce mediante esercizi appropriati.
34. Davide dunque taceva: non sempre, ma a tempo; non stava dunque continuamente, e con ogni persona senza rispondere; ma al nemico, che l'aizzava, al peccatore, che lo provocava, non rispondeva. E come egli in un altro luogo dice (Sal 37,13-14): Come sordo non udiva quei, che dicevano cose vane, e pensavano ad inganni; ed a questi tali a guisa di muto non rispondeva. Perché tu hai in un altro luogo (Prov. 16,4.) : Non rispondere all'imprudente secondo la sua imprudenza, per non diventar simile a lui.
35. Il primo ufficio dunque è il modo del parlare. Per mezzo di questo a Dio si rende il sacrificio della lode; con questo si onora, quando si leggono le divine Scritture; con questo si onorano i parenti. So che molti sogliono parlare, non sapendo tacere. È cosa rara a ciascuno il tacere, quando il parlare non gli giova. Il savio dunque quando egli ha a parlare, considera prima molte cose: quel che egli ha da dire, a chi, in che luogo, e a che tempo. È dunque un certo termine nel tacere, e nel parlare. Ed è ancora il termine nei fatti. E conseguentemente è cosa bella mantener la misura dell'ufficio.
CAPITOLO XI
36. Ogni (Cic.lib.I.Offic.c. i.) ufficio dunque è o medio, o perfetto; lo che parimente possiamo provare coll'autorità delle Scritture. Perché noi abbiamo nel Vangelo (Mat 19, 17-19 ), il nostro
Signore aver detto ad un giovine: Se tu vuoi venir nell'eterna vita, osserva i Comandamenti. E quali gli chiese? Gli rispose Gesù Cristo: Non far omicidio, non adulterare, non rubare, non far falsa testimonianza. Onora il padre e la madre: ed ama il prossimo tuo tome te medesimo. Questi sono gli uffici medi, ai quali manca qualche cosa.
37. Finalmente gli dice quel giovane: ( Ibidem 20. 21.) Io ho dalla fanciullezza osservato tutte queste cose; che mi manca egli ancora? Gli disse, Cristo: Se tu vuoi esser perfetto, va, vendi le tue facoltà, e dalle ai poveri, ed acquisterai tesori in cielo, e vieni, e seguimi. E così sta scritto più sopra la dove dice (Mt 5,44-45), che noi dobbiamo amare i nemici, e pregare per quelli che ci calunniano, e ci perseguitano, e benedire quelli che ci maledicono: noi dobbiamo far questo se vogliamo esser perfetti, come il Padre nostro che è in cielo, il quale fa che il sole spanda i suoi raggi sopra i buoni, e sopra i cattivi, e che ingrassino tutte le terre di pioggia, e di rugiada senza distinzione di persona. Questo dunque è il perfetto (Cic. loc. cit.) ufficio, chiamato dai Greci ?????q??? col quale si correggono tutte le cose che hanno potuto aver mancamento alcuno.
38. Buona è ancora la misericordia, la quale rende perfetti, perché ella imita il perfetto Padre. Per nessuna cosa è tanto lodata l'anima cristiana, quanto per la misericordia. Anzitutto (Cic. De Offic. I,3, 8) verso i poveri, che tu giudichi i prodotti della natura esser comuni, la quale genera i frutti della terra ad utilità di tutti, affinché tu doni al povero quel che tu hai, e aiuti chi, simile a te, condivide la tua sorte. Tu gli dai una piccola cosa, ed egli riceve la vita. Tu gli dai denari, ed egli lo considera tutta la sua sostanza, e così quella tua moneta è diventata tutta la sua rendita.
39. In cambio di quelle cose egli molto più ti conferisce, riconoscendosi tuo debitore della sua salute. Se tu vesti l'ignudo, tu vesti te stesso di giustizia. Se tu alloggerai un pellegrino sotto il tuo tetto, se tu accoglierai un bisognoso, egli ti acquisterà l'amicizia dei santi, e i tabernacoli eterni. Non è poca questa grazia, (I Corinth. 9) Tu semini cose corporali, e raccogli cose spirituali. Ti meravigli del giudizio del Signore circa il (Iob. 29,15-16) Santo Giobbe! meravigliati della sua virtù, che poteva dire: Ero l'occhio dei ciechi, il piede degli zoppi. Ero il padre degli infermi, le loro spalle furono riscaldate dal vello dei miei agnelli. Il forestiero non rimaneva all'aperto; ma la mia porta era aperta a chiunque si presentasse. Beato certamente, della cui casa non uscì mai povero alcuno a mani vuote. Perché nessuno è più beato di quello che comprende (Sal. 40) alle necessità del povero, e al danno dell'infermo, e del bisognoso. Nel giorno del giudizio avrà la salute dal Signore, che, gli sarà debitore per la sua misericordia.
CAPITOLO XII
40.Ma molti sono ritratti dall'ufficio della misericordia dispensatrice, pensando che Iddio non di curi l'azioni, o che non sappia quel che noi facciamo segretamente, quel che tenga la nostra coscienza: o che il giudizio suo non sia giusto, vedendo i peccatori abbondare di ricchezze, essere onorati, sani, avere figli; e dall'altra parte i giusti essere poveri, senza onori, senza figli, infermi nel corpo, ed in continue fatiche.
41. Né è piccola tal questione, poiché (Gb 4.8,3 e seg.) quei tre Re amici di Giobbe giudicavano lui essere peccatore, poiché lo vedevano da ricco fatto povero, privato dei molti figli, che egli aveva, pieno di piaghe, trasfigurato per le lividure, coperto di ferite dal capo sino ai piedi (Ibid. 11, 14 e seg.): ai quali il santo Giobbe propone questa conclusione: (Ibid. 21,7 e seg.) se io patisco queste cose per i miei peccati, perché vivono tanto gli empi? Ed essi non sono invecchiati, e le loro case abbondano di ricchezze, vedono moltiplicare la loro prole secondo la loro voglia; hanno i figli davanti agli occhi; non hanno timore alcuno di Dio, e Iddio non li castiga.
42. Vedendo queste cose un debole di cuore, fortemente si turba, e leva dalla misericordia la sua affezione, le parole dal quale volendo riferire il santo Giobbe, disse innanzi per scusarsi (Ibid. 21, 1 e seg.): sopportatemi alquanto, ed io parlerò, di poi ridetevi di me. Perché se io son castigato, sono castigato come uomo. Sopportate dunque il peso delle mie parole, perché io sto per dire cose ingiuste, al tutto fuori di mia opinione, ma le dirò per riprendere voi. O certamente perché sia così: ditemi di grazia: sono forse punito da un uomo? Cioè l'uomo non mi può punire per un peccato ch'io abbia fatto, sebbene io meriti d'essere castigato; perché voi non mi riprendete di vizio alcuno evidente, ma giudicate i meriti dei peccati secondo le pene che voi vedete. Vedendo dunque il debole che agli ingiusti succede ogni cosa prosperamente, e lui stesso è punito, dice a Dio: (Ibid. 14) Allontanati da me, io non voglio conoscere le tue strade. Che ci giova il servirlo? Che utilità caviamo noi dall'ubbidire a lui? Nelle loro mani vengono tutte le bonacce, ed egli non vede le operazioni degli empi.
43. Platone è lodato per avere introdotto nella sua Politica uno, che volendo disputare difendendo l'ingiustizia, chiede scusa delle cose dette da lui: non che così pensasse, ma per trovare il vero, e per disputare aveva accettato il compito che gli era stato imposto. Questo piacque tanto a M. Tullio, che nei libri che egli scrisse delle Repubblica, giudicò di fare allo stesso modo.
44. Quanto più antico di loro Giobbe, che innanzi a loro scoprì questo modo di fare? Né giudicò fare tale proemio per ornamento di eloquenza, ma per provare la verità, e subito sciolse il nodo di tal questione, dicendo che (Gb 21, 17) la lucerna degli empi si spegne, e che avverrà la loro distruzione. Dice poi che Iddio, maestro della sapienza e della disciplina, non è ingannato, ma che (Ibid. 22) è giudice della verità; però non si deve giudicare la beatitudine di ciascuno secondo l'abbondanza comune e volgare dei beni, ma secondo l'interna coscienza, la quale discerne i meriti degli innocenti e degli scellerati, a come un incorrotto giudice delle pene, e dei premi. Muore l'innocente (Ibid. 23 e seg.) nel potere della sua semplicità, nell'abbondanza della propria volontà, avendo l'anima come ripiena di abbondanza. Ma il peccatore, benché abbondi di fuori, e galleggi nelle delicatezze, e emani fortissimi odori, finisce la vita con l'amarezza dell'anima, e chiude l'ultimo giorno, non portando con se alcuna di quelle cose che egli aveva godute, non portando con se altro che il pregio delle sue scelleratezze.
45. Pensando queste cose nega se puoi, che vi sia la rimunerazione da parte del Giudizio divino. Beato quegli conoscendo la sua affezione, questi meschino. Quegli assolto dal suo giudizio, questi condannato; quegli allegro alla fine, quegli sofferente. Da chi può essere assolto quello che neppure con se stesso è innocente. Ditemi, dice egli, (Gb 21, 28) dov'è la dimora degli empi? Non se ne trova segno alcuno. Perché la vita di uno scellerato è come un sogno. Aprì gli occhi, ed era passato il suo riposo, ed il piacere finito: il piacere che negli empi si vede, anche mentre che essi vivono, è nell'inferno. Perciò essi stessi mentre ancora vivono scendono nell'inferno.
46. Tu vedi il banchetto del peccatore, esamini un poco la sua coscienza; non è ella più puzzolente che tutti i sepolcri? Tu vedi la sua allegria, ed il benessere del suo corpo, e l'abbondanza dei figli, e delle ricchezze! Guarda dentro le piaghe, e le lividure della sua anima, e la tristezza del suo cuore. E che cosa dirò io delle ricchezze, avendo tu letto (Lc 12,15) che la sua vita è nell'abbondanza, anche se tu sai che anche se egli ti sembra ricco, a lui sembra di essere povero, e col suo parere smentisce il tuo stesso parere? Che dirò io anche della moltitudine dei figli, e del non avere mai avuto alcun dispiacere, motivo per il quale egli si angustia, e pensa di morire per avere eredi, non volendo essere imitato dai suoi successori? Perché niente è l'eredità del peccatore. L'empio dunque a sé medesimo è pena, ed il giusto è a se stesso gloria, e ciascuno di loro da solo si retribuisce delle buone, o delle cattive azioni.
CAPITOLO XIII
47. Ma torniamo al nostro proposito, per non sembrare d'avere lasciato indietro la divisione fatta, perché noi abbiamo voluto rispondere all'opinione di quelli che, vedendo molti uomini scellerati essere ricchi, allegri, onorati, potenti, ed essendoci dall'altra parte molti giusti che patiscono sia la povertà, che l'infermità, pensano che Iddio o non curi dei nostri fatti, come dicono gli Epicurei, o che egli non conosca le vicissitudini degli uomini, come pensano gli empi, o se pure le fa, che egli sia un giudice ingiusto, che sopporta il venire meno dei buoni, o per lo contrario l'avanzare dei cattivi. Tal digressione non è stata superflua, perché ha fatto sì che il sentimento di coloro i quali essi giudicano che siano beati, mentre essi reputano se stessi meschini. Dico ciò perché io mi sono immaginato, che egli abbiano creduto più a se medesimi, che a me.
48. Fatto questo discorso penso di confutare le altre cose facilmente, e in primo luogo la posizione di quelli, che ritengono che Iddio non abbia cura del mondo, come Aristotele, che disse che la sua provvidenza non s'estende alle cose che sono al di sotto della Luna. E qual creatore è quello che non si curi della sua opera? Chi abbandonerebbe e trascurerebbe quelle cose, che egli prima avesse giudicato di dovere fare? Se non è degno di lui reggere il mondo, non è egli neanche degno di averlo fatto, non farebbe ingiustizia alcuna, mentre il disprezzare quel che tu hai fatto sarebbe somma empietà.
49. E se negano che Iddio è loro Creatore, o giudicano di far parte delle fiere e delle bestie, che diremo noi di quelli, che si condannano con questa accusa? Dicono che Iddio è in tutte le cose, e che tutte le cose sussistono in virtù di quello; dicono poi che la forza, e la sua maestà penetra per tutti gli elementi: la terra, il cielo, il mare, e giudicano una sua bassezza, se egli penetrasse la mente dell'uomo, della quale non ci ha dato cosa più perfetta, e vi entrasse con la scienza della Maestà divina.
50. Ma quei Filosofi, che tra tutti sono ritenuti i più sobri e modesti, deridono l'autore di questi tali discorsi, come ubriaco e troppo amico dei piaceri. E che dirò io dell'opinione di Aristotele, che pensa che Iddio s'accontenti dei suoi confini, e stia nel regno a cui si è limitato, come dicono le favole dei Poeti, che scrivono che il mondo fu diviso in tre parti, e che per il caso toccasse ad alcuni il governo del cielo, ad altri del mare, ad altri ancora quello dell'inferno, e che stanno attenti a non fare guerra tra di loro, poiché desiderano troppo la parte degli altri? E similmente dice che non ha cura della terra, come non l'ha del mare, né nell'inferno. Ed in che modo non tengono essi conto dei Poeti, dei quali accolgono i miti?
CAPITOLO XIV
51. Si continua rispondendo a quella domanda, secondo cui in Dio ci sia scienza, dato che egli abbia cura delle cose che egli ha fatte. Dunque colui, che ha formate le orecchie, non ode? Chi ha fabbricato l'occhio, non vede, non osserva?
52. Non passò questa vana opinione, senz'essere conosciuta dai santi Profeti. Infatti Davide fa parlare quelli, che gli parevano pieni di superbia. Difatti, quale cosa si può immaginare di più superba, di quella che essi, essendo sotto il peccato, si dispiacciano che i peccatori vivano dicendo: (Sal 93, 3) e fino a quando o Signore, fino a quando si vanteranno i peccatori? E poco di sotto: ( Ibid.7 e seg.) Essi dissero: il Signore non vedrà né il Dio di Giacobbe comprenderà. Ai quali risponde il Profeta, dicendo: comprendete ormai insensati tra i popoli, e voi stolti rinsavite. Colui che ha fatto le orecchie non ode? Quello che ha fabbricato l'occhio, non osserva? Colui che corregge le genti, non riprenderà? Quello che insegna agli uomini la scienza? Il Signore Dio sa che i pensieri degli uomini sono vani. Quello che ha trovato le cose, che sono vane, non conosce le cose sante, e quelle cose che egli ha fatto? Può un Artefice non conoscere l'opera sua? Egli è uomo, e nei suoi lavori conosce tutti i segreti; e Iddio non conosce l'opera sua? Ci sarà dunque più perfetta conoscenza nell'opera, che nell'Autore? Ha creato allora qualche cosa superiore a sé, della quale, benché autore, ignora i meriti, e, benché signore non conosce i sentimenti? E questo sia per loro una risposta sufficiente.
53. Del resto a noi basta la testimonianza di colui, che disse (Ger 17,10): Io sono colui che penetra i cuori, e i reni. E quel che disse nel Vangelo Gesù Cristo ( Lc 5,22): Perché pensate male nei vostri cuori? Perché egli sapeva che essi pensavano male. Di questo infatti ne rende testimonianza l'Evangelista, quando dice ( Lc 6, 8): Infatti Gesù conosceva i loro pensieri .
54. L'opinione di costoro, dunque, non sarà sufficiente a convincerci, se noi considereremo le loro azioni. Non vogliono avere come superiore un giudice che sappia ogni cosa, e per tal motivo non può essere ingannato. Non gli vogliono concedere la conoscenza delle cose nascoste, temendo che i loro segreti si scoprano. Ma il Signore anche sapendo le loro operazioni, li pose nelle tenebre. Di notte, disse,(Gb 24, 14-15) si aggirerà il ladro. E l'occhio dell'adulterò scruterà le tenebre dicendo, «io non sarò visto» e cercherà di nascondersi. Perché chiunque fugge dalla luce, ama le tenebre, cercando di nascondersi, e però non si può nascondere dalla faccia di Dio, il quale conosce dentro al profondo dell'abisso, e dentro le menti degli uomini, non solamente le cose, che si sono fatte, ma anche quelle, che si vogliono fare. Infine quello che dice nel Siracide (Sir 23, 25-26): chi mi vede ora? Sono coperto dalle mura e dalle tenebre, di che ho paura? Benché egli pensi a quelle cose mentre che egli è nel letto, è visto nientedimeno quando non se l'aspetta. E sarà, dice, vergogna che egli non avrà conosciuto il timor di Dio.
55.E che cosa può egli pensare più sciocca, che credere che a Dio non sia chiara e manifesta ogni cosa? Poiché il Sole che è strumento della luce, penetra anche le cose nascoste, e la forza del suo calore arriva nelle fondamenta della casa, e nelle più chiuse e segrete stanze? Chi negherà che le viscere della terra indurite prima dal freddo dell'inverno, non s'intiepidiscano per il temperato caldo della Primavera? Dunque le parti nascoste degli alberi sentono sia la forza del caldo che del freddo, perché le loro radici o si bruciano, per il freddo, o rinverdiscono per il caldo del Sole; e la terra finalmente fiorisce in vari e diversi frutti, appena che la benignità del Cielo vi arride.
56. Pertanto se il raggio del Sole diffonde la sua luce su tutta la terra, ed entra in tutte quante le cose nascoste, e non gli può essere impedito di trapassare né da oggetti di ferro, né da porte anche se grosse, come non potrà penetrare l'intelligibile splendore di Dio nei pensieri degli uomini, e nei cuori, che egli stesso ha creati? Ma non vedrebbe egli le cose da lui fatte, ed avrebbe egli ordinato che quelle che esistano, siano migliori e più potenti di lui che le ha fatte, così da potersi nascondere dalla conoscenza del loro creatore? Ha egli concesso dunque tanta virtù e tanta potenza alle nostre menti, che egli medesimo non la possa comprendere, quando egli volesse?
CAPITOLO XV
57. Abbiamo parlato di due cose, né sconvenevolmente, come sembra, ci è capitata tale disputa. Ci resta pertanto una terza questione, che è questa: Per qual motivo i peccatori abbondino di mezzi e di ricchezze, stiano in continui conviti e feste, senza alcun dispiacere, affanno, o noia; ed ai buoni manchi qualunque cosa, e tutto il giorno si dolgano o per la perdita delle mogli o dei figli. Ai quali dovrebbe bastare quella parabola del Vangelo(Lc. 16,25) secondo cui il ricco si vestiva di bisso e di porpora, ed ogni giorno faceva banchetti, e dall'altra parte il povero pieno di piaghe raccoglieva le briciole che cadevano dalla sua mensa. E dopo la morte d'ambedue il povero riposava nel seno di Abramo, e il ricco si trovava nei tormenti. Non è manifesto che i premi o le pene dei nostri meriti ci attendono dopo la morte?
58. E ben a ragione, perché nella lotta viene prima la fatica, e dopo quella alcuni ottengono la vittoria, altri ne riportano vergogna. Si dà forse la palma, o si concede la corona ad alcuno, prima che egli abbia finita la carriera? Giustamente dunque disse Paolo (Tm 4, 7-8 ): Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede; quanto al resto m attende la corona che il Signore giusto giudice mi darà in quel giorno; e non solamente a me, ma anche tutti quelli, che attendono con amore la sua venuta. Renderà in quel giorno, dice, non qui. E qui s'affaticava come buon guerriero in fatiche, in pericoli, in naufragi, perché egli sapeva che bisogna per mezzo di molte tribolazioni entrare nel regno di Dio. Non può dunque nessuno ricevere il premio, se prima non avrà legittimamente combattuto. Né si può chiamare vittoria gloriosa, se non dove siano state battaglie faticose.
CAPITOLO XVI
59.Non diremo noi che sia ingiusto colui che domanda il premio prima che la gara sia terminata? Per questo diceva il nostro Signore nel Vangelo ( Mt 5, 3 ): Beati sono i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Non disse beati i ricchi, ma i poveri. Quindi comincia la beatitudine appunto al giudizio divino, dove comincia la calamità secondo il parere umano (Ibid., 5 seg. ). Beati quelli che hanno fame, perché saranno saziati. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati i misericordiosi, perché Iddio avrà misericordia di loro. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati quelli che sono perseguitati a causa della giustizia, perché, di essi è il regno dei Cieli. Beati siete tutte le volte che gli uomini vi bestemmiano e perseguitano, e dicono ogni male di voi, per la giustizia: Rallegratevi, e siate lieti, perché grande è il vostro premio nel regno dei Cieli. Non ha promesso che il premio si dà nel presente, ma in futuro; non in terra, ma in cielo. Perché dunque domandi quelle cose in un luogo, che ti sono dovute in un altro? Perché domandi troppo frettolosamente la corona, prima di vincere? Perché cerchi di scuotere la polvere? Perché vuoi riposarti? Perché brami di banchettare prima che le gare siano finite? Ci sono ancora gli spettatori, ancora i combattenti sono in lizza, e tu cerchi già di riposarti?
60. Ma forse mi dirai: Perché se ne stanno allegri gli empi? Perché attendono alle dissolutezze? Per quale motivo non s'affaticano anche essi con me? Perché quelli che non si sono messi in lista per acquistare la corona, non son tenuti alla fatica della lotta. Quelli che non si vogliono presentare al campo, non s'ungono coll'olio, ne si stropicciano con la polvere. A quelli aspetta il disagio, per cui è preparato l'onore. I profumati sogliono stare a vedere, non a combattere, non sopportare sole, caldo, polvere, o acqua. Dicano dunque loro i lottatori: Venite, affaticatevi con noi. Ma gli spettatori risponderanno: noi stiamo qui in mezzo a giudicare di voi; e se vincerete, conseguirete l'onore senza noi.
61. Costoro dunque che hanno posto i loro studi nelle delicatezze, nella lussuria, nel derubare gli altri, o nei guadagni, o negli onori, sono piuttosto spettatori, che combattenti: ottengono il profitto della loro fatica, non hanno il frutto della virtù; si ne stanno nell'ozio, accumulano con astuzie e scelleratezze ricchezze in gran quantità; ma finalmente ricevono, benché alle volte tardi, la pena delle loro ribalderie. Il riposo di quei tali è nell'inferno, ed il tuo in Cielo. La Casa di questi tali è sottoterra, la tua in Paradiso. Il perché di ciò, molto elegantemente lo diceva Giobbe (Gb 21,32): che essi vegliano nelle sepolture, perché essi non possono dormire quel sonno di quiete, che ( 1Cor 13) dormì colui che risuscitò.
62. Non pensare dunque come un piccolo bambino, parlare come un fanciullino, avere i pensieri d'un fanciullino; non attribuirti come un fanciullino quello che appartiene all'ultima età. La corona è dei perfetti. Aspetta che venga colui, che è perfetto: quando tu non per somiglianza, né sotto parlare oscuro, ma a faccia a faccia possa conoscere la nuda verità. Allora si manifesterà per quale motivo quello è stato ricco, che era scellerato, e ladro della roba altrui; e il motivo per cui quell'altro fosse potente, e perché quell'altro fosse copioso di figli, un altro pieno di onori.
63. Forse per poter dire al ladro, tu eri ricco, per quale motivo prendevi la roba d'altri? Non ti spinse certo la povertà, né la necessità. E non ti feci io ricco, perché tu non potessi avere alcuna scusa? Per poter dire anche al potente, perché non aiutasti la vedova, e gli orfani che subivano ingiustizia? Ti mancavano i mezzi ? Non potevi tu aiutarli? Io non ti feci patente per altro motivo se non perché tu non usassi violenza con persona alcuna; anzi la allontanassi del tutto. Non ho scritto per te (Qo 4. 9. ): Difendi chi è ingiuriato? Non ho scritto parimenti per te ( Sal 81,4): Traete il povero e liberate il meschino delle mani del peccatore? Per poter dire anche a quello che ebbe molti figli: lo ti moltiplicai gli onori, ti concessi la sanità del corpo, perché non seguisti i miei comandamenti? Servo mio, che ti feci io, (Mic 6, 3. seg.) in che ti contristai? Non ti detti io figli, non ti concessi onori, non ti donai la salute, perché mi rinnegasti? Perché giudicavi ch'io non conoscesse le tue azioni? Per quale motivo tenevi tu i miei doni, e disprezzavi i miei comandamenti?
64. Queste cose finalmente possiamo concludere dalla condotta di Giuda traditore, il quale fu eletto Apostolo tra dodici, ed aveva in custodia i danari, i quali doveva dispensare ai poveri, affinché non si pensasse che egli avesse tradito il Signore per essere da lui poco stimato, oppure per povertà. Però il Signore gli concesse queste cose, per potersi in lui giustificare, che egli non come provocato ad ingiuria, ma come contrappostosi alla grazia meritasse più crudeli, e maggiori tormenti.
CAPITOLO XVII
65.Perchè dunque per le cose dette sin qui è assai chiaro che debbano essere puniti i vizi, e premiate le virtù, cominceremo a parlate dei doveri, i quali (Cic. Offic. Libro I ) da piccoli bisogna coltivare, affinché insieme coll'età crescano gli studi delle buone azioni. Appartiene dunque ai buoni giovani avere il timore di Dio, onorare i parenti, riverire i più attempati, conservare la castità, non disprezzare l'umiltà, amare la clemenza, e la modestia: le quali cose tutte sono ornamenti della tenera età. Perché siccome è da apprezzare la serietà nei vecchi, e nei giovani la vivacità cosi anche nei fanciulli si deve lodare la modestia, quasi come una dote di natura.
66. Temeva Iddio Isacco, come conveniva a quegli che era figlio d'Abramo, e tanto onore e riverenza portava al padre, che per non opporsi al suo volere (Gn 22, 9 e seg.) non rifiutava la morte. Giuseppe anche (lbid. 37,6 e seg.) contuttoché avesse sognato nientedimeno che il sole, la luna, e le stelle l'adorassero, manteneva una continua ubbidienza al padre. Tanto casto (Ibid. 39,8 e seg.), che egli non voleva udire alcun parlare se non pudico; umile sino alla servitù, vergognoso sino alla fuga, paziente, sino al carcere, perdonatore d'ingiurie sino a rendere bene per male. La cui modestia fu tanta, che preso da una donna volle più fuggendo lasciare la propria veste nelle mani, che menomare la sua modestia. Mosè anche e Geremia (Ger 1,6) eletti dal Signore per predicare al Popolo gli oracoli Divini, ricusavano per vergogna e modestia di fare molte cose che essi potevano fare per mezzo della grazia.
CAPITOLO XVIII
67. La virtù dunque della modestia (Cic. Offic. Libro I) è bella, è soave la grazia, la quale si vede non solamente dai fatti, ma anche dalle parole, perché fa sì che di bocca tua non esca parola alcuna disconveniente. Perché infatti le parole rispecchiano l'animo. La modestia tempri il suono della voce, affinché essa usata in modo troppa forte non offenda le orecchie di alcuno. Infine nel modo del cantare la prima regola è la modestia, anzi in ogni uso di parlare. Perciò a poco a poco si comincerà a salmeggiare, o cantare, o finalmente parlare, in modo che la discrezione iniziale faccia apprezzare ciò che seguirà.
68. Anche lo stesso silenzio, che è il riposo di tutte le altre virtù, è un grandissimo atto di modestia. Infatti se procede da fanciullezza o da superbia, si biasima assai; se procede da rossore, si attribuisce a lode. Susanna (Dn 13,35) nei pericoli taceva, e pensando che fosse più grave danno il perdere la modestia che la vita, non giudicò che si dovesse, per salvare la vita, mettere l'onore a repentaglio. Parlava solamente con Dio, al quale poteva parlare con casta delicatezza. Evitava di guardare in faccia degli uomini; infatti è anche negli occhi un certo rossore, che la donna non può sopportare di vedere uomini, né da quelli essere veduta.
69. Ma nessuno, pensi che questa lode sia solamente della castità; perché la modestia è compagna della pudicizia, in unione con la quale, la castità è più sicura. Perciò il pudore è un ottimo aiuto a reggere la carità; che se essa fa innanzi ai primi pericoli, non lascia violare la pudicizia. Il pudore è la prima virtù che rende ammirevole ai lettori del Vangelo ( Lc 1,19 e seg.) la Madre di Dio, e come grande testimonianza assicura che lei è degna d'esser eletta ad un così grande ufficio. Poiché in camera, sola, salutata dall'Angelo tace e si commuove nell'entrare di quello, e si turba il suo l'aspetto per la viso di un uomo estraneo. Pertanto benché ella fosse umile, nientedimeno per modestia non gli restituì il saluto, né gli dette risposta alcuna, se non quando intese d'avere a generare il Figlio di Dio. E quando parlò, fu soltanto per conoscere la natura di ciò che sarebbe capitato in lei, non per confutarne il parlare.
70. Nella nostra orazione anche molto piace a Dio la modestia, e molta grazia ci acquista presso il nostro Dio. E non fece ella preferire il Pubblicano(Lc 18,13-14), e lo raccomandò, lui che non ardiva di levar gli occhi al Cielo? Però fu giustificato più appresso al Signore, che quel Fariseo, il quale per la presunzione fu rifiutato. Pertanto preghiamo conservando incorrotto lo spirito della mitezza e della modestia, che è gradito a Dio, come dice S. Pietro (1 Pt 3,4). Grande quindi è la modestia, anche se sia di sua natura molto nascosta, e niente usurpa, niente si attribuisca, ed in un certo modo stando al di sotto delle sue capacità, è non per questo grande presso a Dio, presso al quale nessuno è ricco. Ricca è la modestia, perché ella è porzione di Dio. S. Paolo anche ( 1 Tm 2, 9 ) comanda di pregare con rispettosa modestia e sobrietà. Vuole che questa virtù preceda e faccia una strada all'orazione futura, perché non sia orgogliosa l'orazione del peccatore, ma quasi guidata dal rossore, quanto più si vergogna al ricordo dei peccati commessi, tanto maggiore grazia meriti e riceva.
71. Si deve anche (Cic. Offic. libro I )conservare la modestia anche nei movimenti, nei gesti, e nel portamento, perché la virtù della mente si deduce dall'atteggiamento e dalla disposizione del corpo. Quindi si conoscono i segreti affetti dell'animo, e si giudica l'uomo essere leggero, o vanitoso, o stupido; o al contrario è riputato serio, costante, puro, e maturo. Pertanto il movi-mento del corpo è una certa voce dell'animo.
72. Ricordatevi figlioli che un certo amico, benché egli paresse lodevole per molte sue azioni, nientedimeno non fu da me ricevuto nel Clero, solo perché i suoi gesti erano molto sconvenevoli. Ed avendone anche trovato un altro nel Clero, gli comandai che non mi si presentasse più d'avanti, perché egli con il suo insolente andare feriva con i miei occhi, lo stesso mio animo: ciò lo dissi mentre egli, poiché mi aveva in tale modo offeso, si riprendeva ad attendere ai suoi doveri. Quello solo mi fece dar loro eccezione, né m'ingannai nel mio parere; per questo ambedue si sono allontanati dalla Chiesa, perché si manifestasse la perfidia dell'animo loro, il quale nel loro portamento si poteva comprendere. Perché uno nel tempo che seguiva la setta d'Ario abbandonò la Fede; l'altro desideroso di danari, per non essere giudicato, negò d'essere nostro Sacerdote. Si scorgeva nel loro portamento il ritratto della leggerezza ed un certo atteggiamento da buffoni.
73.Ci sono anche (Cic. Offic. Libro I) alcuni che coll'andar adagio imitano i gesti degli istrioni, e quali simili ai portatori di vasi nei pomposi spettacoli imitano i movimenti delle statue, sicché, ogni volta ch'essi muovono il passo, pare che essi osservino certe determinate misure.
74. Non giudico convenevole l'andare molto frettolosamente, a meno che qualche pericolo, o una giusta necessità non lo richiedesse. Perché il più delle volte noi vediamo alcuni correre in modo che, che oltre al non poter respirare, deformano in tal modo la faccia, che se manca loro il necessario motivo di tanta fretta, si ha in essi ragionevole motivo di offenderli. Non parlo già di quelli che di rado, e con qualche cagione affrettano tanto il passo, ma di quelli ai quali un tal passo veloce e continuo si converte in natura. Non lodo dunque in quelli l'andare in modo che essi sembrino pitture, né in quegli altri la stessa velocità delle frecce lanciate dagli arcieri.
75. Perché solo quell'andare è lodevole, in cui ci sia forma d'autorità, peso di gravità, e vestigio di tranquillità; purché tutto sia lontano da ogni studio ed affettazione, ma sia movimento puro e semplice, perché nessuna cosa finta piace. La natura dia forma ai moti. E se si ritrova qualche cosa di vizioso nella natura, l'industria la purifichi, di maniera che vi manchi l'arte, ma non già la correzione.
76. Che se anche a queste cose si pensa tanto, quanto più bisogna che l'uomo sia attento, che non gli esca di bocca parola alcuna turpe; perché questo grandemente macchia l'uomo, perché non il cibo guasta l'uomo, ma bensì il calunniare, e il parlar volgare. Queste cose anche presso il popolino sono di vergogna; ma nel nostro stato ogni parola meno che onesta, che ci cade di bocca, è cagione di vergogna. E non solo non dobbiamo noi proferire cosa alcuna disdicevole, ma neanche prestare orecchi a simili discorsi, come Giuseppe (Gn 39,12) che per non udire cosa meno che convenevole alla sua modestia, scappò, e lasciò la veste: perché chi si rallegra d'udire, provoca gli altri a parlare.
77. L'ascoltare anche qualche cosa volgare è di somma vergogna ; ma quanto è abominevole il vedere simili cose, se per caso uno vi si abbattesse! Quelle cose dunque che ci dispiacciono in altri, come possono piacere in noi stessi? La stessa natura c'insegna queste cose, la quale distinse perfettamente tutte le parti del nostro corpo provvedendo alle necessità, ed ornando la bellezza; tuttavia lasciò aperte quelle, che fossero gradite all'occhio, perché in esse risaltassero il culmine della bellezza posta quasi in cima, e l'eleganza della figura, e la grazia del volto stesse in alto, e fosse pronta al continuo servizio. E di quelle che sono fatte per le naturali occorrenze e necessità, perché non offrissero di sé indecoroso spettacolo, in parte le nascose dentro nel corpo, e in parte insegnò e persuase di doverli coprire.
78. Non è dunque la natura stessa maestra della modestia? Dal cui esempio mossa la modestia degli uomini ( la quale penso essere cosiddetta dal modo e misura di sapere quel che sia conveniente) velò e coprì quelle parti che trovò nascoste nella struttura del nostro corpo, come si copriva quell'uscio, che fu ordinato al giusto Noè (Gn 6,16) che facesse attraverso all'arca, nella quale era la figura o della Chiesa, o del nostro corpo, per lo qual uscio si smaltiscono le superfluità dÈ cibi . Il Fattore dunque della natura ebbe tal riguardo della nostra modestia, e in tal modo osservò nel nostro corpo il decoro e l'onesto, che egli pose in quei condotti della parte posteriore del corpo l'uscita delle nostre superfluità, togliendole dalla nostra vista, affinché la purgazione del ventre non offendesse la vista degli occhi nostri (Cic. Offic. Libro I). Di questo diceva ottimamente l'Apostolo S. Paolo (1 Cor 12,23) che quelle membra del corpo che ci paiono più deboli, sono più necessarie, ed a quelle parti che sono più vili riputate, rendiamo maggiore onore: e quelle che sono più sporche, hanno in loro maggiore onestà . Imitando la natura, la nostra iniziativa ha accresciuto la nostra bellezza. La qual cosa noi abbiamo altrove (libro I De Arca e Noè cap. 8 ) più a lungo espressa; che quelle parti che sono da coprire, noi non solamente le nascondiamo agli occhi nostri, ma anche pensiamo che sia cosa brutta e sconvenevole chiamare con i propri nomi le tracce, e gli usi di quelle membra.
79. E finalmente se queste parti ci vengono per caso scoperte, la modestia se ne offende, e se le scopriamo apposta, ciò è ritenuto spudoratezza. Per la qual cosa Cam, figlio di Noè ( Gn 9, 22 e seg.) fu punito, perché rise vedendo suo Padre in tali parti scoperto, e quelli che lo coprirono, conseguirono la grazia della benedizione. Da qui venne anticamente in uso si nella Città di Roma, e anche in molte altre Città, che i figli giovani non si lavassero insieme con i padri, né i generi coi suoceri, affinché non diminuisse l'autorità paterna, benché molti ne bagni si coprono quanto possono, affinché anche quivi, dove sta nudo il rimanente del corpo, non stia scoperta quella parte.
80. I Sacerdoti anche anticamente portavano le mutande come noi leggiamo nell'Esodo (28, 42-43), siccome il Signore Iddio disse a Mosè: Ordina loro mutande di pannolino per coprire le parti vergognose, le quali saranno dai lombi sino alle cosce, e le porti Aronne, ed i suoi figli, quando entreranno nel Tabernacolo della testimonianza, e quando saranno a sacrificare all'Altare del Santo, e non indurranno il peccato sopra di loro per non morire. Ciò è osservato da molti di noi, e molti anche pensano ciò doversi intendere spiritualmente per conservar la modestia, e per mantener la castità.
CAPITOLO XIX
81. Ho avuto non piccolo piacere di parlare di ciò che è attinente alla modestia, perché parlavo a voi, i quali o in voi stessi conoscete i suoi beni, o non sapete il danno di esserne privi, la quale sebbene è opportuna per tutte le età, per tutte le persone, e tempi, e luoghi, nientedimeno conviene primariamente all'età giovanile.
82. Ed in qualunque età bisogna che quello che tu fai, sia dicevole, e conveniente, e corrisponda a se stesso l'ordine della tua vita. Per la qual cosa anche Tullio (Libro I De Officiis) ritiene che si debba osservare l'ordine in tale convenienza, e dice che essa consiste nella bellezza, nell'ordine, nel vestire adattato alle situazioni: le quali cose, dice egli, difficilmente si possono esprimere con parole, ma basta ch'esse stesse s'intendano.
83. Ma non so a che fine egli vi abbia posta la bellezza; benché egli anche lodi le forze del corpo, noi non poniamo il luogo della virtù nella bellezza del corpo, non escludiamo però la grazia, perché la modestia, suole spargere nei volti un certo rossore, e renderli più graziosi. Perché come un artefice suole molto meglio operare in una materia più comoda, così la modestia sta molto meglio nella più bella parte del corpo, in modo però che questa bellezza del corpo non sia finta, ma naturale, semplice e più trascurata, che desiderata; non aiutata da preziosi e vani vestiti, ma comuni ed ordinari, affinché non manchi cosa alcuna di quello che è onesto, e necessario, e niente vi si aggiunga che accresca lo splendore.
84. La voce anche non sia bassa né fievole: niente suoni di femminile, come sogliono fingere molti per essere ritenuti gravi, ma riservi un'impronta, una certa regola,e sapore virile. Questo è il tenere la bellezza del vivere, operare dipendentemente dal modo in cui si conviene a ciascun sesso, ed a qualunque persona. Questo è il miglior ordine per le azioni, questo è l'abbigliamento adatto a tutte quante le attività. Ma come non mi piace o il suono della voce, i gesti del corpo fuor di misura delicati o deboli, così anche biasimo i ruvidi, e i villani. Imitiamo la natura. La sua forma è forma di disciplina, forma d'onestà.
CAPITOLO XX
85. La modestia ha certamente i suoi scogli: non che essa li porti con sé, ma spesse volte incappa in essi, quando per esempio ci imbattiamo in compagnie di dissoluti, i quali sotto l'apparenza di volere star allegri e di passare il tempo, corrompono i buoni. Costoro se continuamente ci stanno d'intorno, e in particolare nei conviti, ai giochi e ai passatempi, indeboliscono quella gravità virile. Stiamo attenti, dunque, che quando noi vogliamo un po'alleviar l'animo nostro, a non guastare tutta l'armonia, per così dire, il melodioso accordo delle buone opere. Infatti l'abitudine altera presto la natura.
86. Perciò io giudico molto conveniente ad una prudente condotta ecclesiastica, e soprattutto al ministero sacerdotale, evitare i conviti degli estranei, o affinché voi ospitiate i pellegrini, o affinché con la sopraddetta cautela voi allontaniate ogni occasione a chi volesse dire male di voi. I conviti con gli estranei tengono impegnati a lungo, e manifestano anche la cupidigia di mangiare. Di frequente sinsinuano anche discorsi mondani e lascivi: non puoi chiudere le orecchie, e l'impedirlo sembra arroganza. Senza accorgersene si beve anche oltremisura. Meglio è scusarti in casa tua una sol volta, che molte a quelle d'altri : e benché ti alzi sobrio, non deve nientedimeno essere criticata la tua presenza per colpa dell'altrui indolenza.
87. Non è opportuno che i giovani vadano nelle case delle vedove, né delle vergini, eccetto che per una visita e in compagnia di anziani, cioè con dei sacerdoti, o se il motivo è più importante, col Vescovo. Che bisogno c'è che noi diamo motivo ai laici di mormorare? Che bisogno c'è che quelle frequenti e visite ne tolgano l'autorità? Se per caso, qualcuna di loro cadesse in qualche errore, perché devi caricare su di te la responsabilità dell'altrui peccato? Quanti anche se forti, sono stati ingannati dalle lusinghe? Quanti sono quelli che non hanno errato, e ne hanno dato sospetto !
88.Perché non utilizzi nel leggere quel tempo, che il ministero ti lascia libero? Perché non vai visitare Cristo, a parlare con Cristo, ad ascoltare Cristo? Noi parliamo con Cristo, quando facciamo orazione, e l'udiamo, quando noi leggiamo le scritture sacre. Che abbiamo in comune con l'altrui case? Una è la casa che tutti accoglie. Vengano piuttosto trovarci, quelli che ci cercano. Che abbiamo noi a fare con i vani racconti? Dobbiamo servire gli altari di Cristo e non intrattenere gli uomini.
89. Si addice a noi anche essere umili, benigni, mansueti, seri, pazienti, misurati in tutte le cose, cosicché né il parlare, né il volto mostri che ci sia vizio alcuno nella nostra condotta nostra.
CAPITOLO XXI
90. Guardiamoci dall'ira, oppure se non possiamo difenderci col prevenirla, cerchiamo di placarla, perché l'ira è una cattiva conseguenza che è in noi a causa del peccato, che talmente perturba il nostro animo, che non lascia alcuno spazio alla ragione. La prima cosa da fare è d'ingegnarsi di abituarsi in modo che, se ci è possibile, la tranquillità del carattere diventi in noi qualcosa di naturale mediante l'esercizio. Inoltre perché il moto d'ira, il più delle volte è in cero modo radicato nella natura, e nelle abitudini, che esso non si può sradicare né evitare; se si può prevedere, bisogna sopprimerlo con la ragione. Oppure se l'animo fosse assalito dallo sdegno, prima che egli con la ragione l'avesse potuto prevedere, occorre preoccuparsi di non essere in tale modo occupato, e pensa in che modo abbia a vincere i movimenti dell'animo tuo, e temperare gli sdegni. Fa resistenza all'ira se puoi; se non puoi cedi, perché è scritto (Rm 12, 19): Cedete all'ira.
91. Giacobbe (Gn 27, 42 e seg.) cedette con bontà al suo fratello irato, ed ammaestrato dai consigli di Rebecca, cioè della pazienza, preferì andarsene e soggiornare in terra straniera, che eccitare gli sdegni del fratello, e ritornare poi quando egli pensasse che il fratello si fosse calmato; e per quel motivo trovo tanta grazia presso Dio. Inoltre con quante riverenze, con quanti doni con se riconciliò egli (Ibid. 32 e seg. ) il suo fratello, affinché egli si dimenticasse che gli aveva carpita la benedizione, e si ricordasse la soddisfazione accordatagli.
92. Se l'ira dunque sopravverrà e dominerà la tua mente, non lasciare il tuo posto. II tuo posto è la pazienza, la sapienza, la ragione, ed il calmare l'ira. Oppure, se la presunzione di chi ti risponderà, ti irriterà, e la perversità ti spingerà allo sdegno; se non potrai mitigare la mente, frena la lingua; perché così è scritto (Sal 33, 14-15): frena la tua lingua dal male e le tue labbra, dal parlare con inganno. Inoltre: Cerca la pace, e seguila. Considera la pace del santo Giacobbe, con la quale in primo luogo pacificherai il tuo animo. Se non avrai potuto renderti superiore a te stesso, poni il freno alla tua lingua e poi non tralasciare il cercare di riconciliarti. Gli Oratori profani hanno posto nei loro libri queste cose dopo averle attinte dai nostri; ma chi le pronunciò per primo ha il merito di un tale modo di sentire.
93. Schiviamo dunque, o freniamo l'ira, affinché non si faccia un'eccezione per essa nelle nostre lodi, né sia artificiosamente esagerata nei nostri difetti. Non è cosa facile mitigare l'ira: non inferiore che arrabbiarsi affatto. Questo è nostro compito, l'altro della natura. Infine quegli impeti d'ira nei fanciulli non sono rimproverare, perché essi hanno più grazia, che asprezza. E se i fanciulli presto si arrabbiano tra loro, facilmente si pacificano, e ritornano più amici di prima, perché non si trattano così per malizia o per inganno. Non disprezzate tali fanciulli, dei quali disse il Signore ( Mt 18, 3): Se non diventerete come questi fanciulli non entrerete nel regno dei Cieli. Pertanto lo stesso Signore, cioè la virtù di Dio, come un fanciullo, quando era offeso, taceva; quando era percosso, non percuoteva chi lo (1Pt 2,23) batteva. Disponiti dunque in tal modo che, come un fanciullo tu non ricordi le ingiurie, e non agisci con malizia; tutte le cose procedano da te innocentemente. Non considerare come tu sia trattato dagli altri, compi il tuo dovere, mantieni la semplicità e la purezza del tuo cuore. Non rispondere ad un irato secondo la sua ira, né ad un imprudente secondo la sua imprudenza. Spesso un peccato tira l'altro. Se tu sfreghi le pietre, non ne scaturisce una scintilla?
94. Esaltano i pagani, soliti come sono d'ingrandire ogni cosa, un certo Archita Tarentino Filosofo, che disse ad un suo fattore: Disgraziato, quanto ti picchierei, se non fossi adirato. Ma anche David (1 Re 25,32) frenò nel suo sdegno l'armata mano. Quanto maggior merito deriva dal non rispondere alle offese, che dal vendicarsi? Alle preghiere di Abigail i combattenti pronti a vendicarsi contro Nabal, si fermarono. Con questo abbiamo fatto vedere che bisogna che non solamente dobbiamo cedere alle preghiere fatte in proposito, ma anche rallegrarci. Egli si compiacque tanto, che ringraziò chi fece da mediatore per distoglierlo dal vendicarsi.
95. Aveva già detto dei suoi nemici ( Sal 34, 4 ): Perché essi precipitarono sopra di me le loro iniquità, e nel loro sdegno mi furono molesti. Ascoltiamo ora quello ch'gli disse turbato nell'ira: (Ibid., 7) Chi mi darà ali come di colomba, e volerò, e mi riposerò? Quelli dunque lo provocavano allo sdegno, ed egli sceglieva la tranquillità.
96. Già aveva detto: (Sal 4,5) Adiratevi, ma non peccate. Questo maestro di morale, che sapeva benissimo che l'impulso naturale piuttosto si doveva calmare con l'insegnamento fondato sulla ragione, piuttosto che sradicandolo, ci dà precetti per agire rettamente cioè: adiratevi quando c'è un motivo, per il quale vi dovete adirare; perché non accada che noi non ci arrabbiamo per delle cose indegne, altrimenti non sarebbe virtù, ma anzi si giudicherebbe insensibilità, o un atto da persona indolente. Adiratevi dunque in modo tale, che non abbiate colpa. Oppure : se vi adirate, non peccate, ma vincete lo sdegno con la ragione. Oppure infine si può intendere: se voi v'adirate, adiratevi con di voi stessi perché vi siete turbati, e così non peccherete. Perché chi si sdegna con se stesso per essersi così velocemente turbato, cessa di adirarsi con chi è adirato. Ma chi vuol giustificarsi d'essersi adirato a ragione, s'infiamma maggiormente, e presto cade nella colpa. Però secondo Salomone ( Prv 16, 32 ) val di più colui che frena l'ira, che chi conquista una Città: perché l'ira acceca anche i forti.
97. Dobbiamo dunque stare attenti non incorrere nelle passioni, prima che la ragione disponga convenientemente gli animi nostri. Infatti lo sdegno, o il dolore, o la paura della morte il più delle volte colpisce la ragione, e la percuote con un colpo inaspettato. Conviene quindi prevenire l'ira ragionando, affinché non sia colpita improvvisamente dalla passione, ma invece si domi, frenata dal giogo e dalle briglie della ragione.
CAPITOLO XXII
98.Ora i movimenti sono di due tipi: cioè dei pensieri, e dell'appetito; altri sono quelli dei pensieri, altri quelli dell'appetito: non sono già mescolati, ma separati e diversi. L'ufficio dei pensieri è cercare il vero, e quasi tritarlo; l'appetito dall'altra parte respinge e decide di operare qualche cosa. Pertanto nella loro propria natura i pensieri devono infondere la tranquillità, laddove l'appetito detrae il moto dell'operare. Bisogna dunque che noi in questo modo stiamo disposti che non cada nell'animo vostro pensiero alcuno se non di cose buone. E che l'appetito ubbidisca alla ragione e che la frizione di qualche cosa non escluda la ragione, ma la ragione stessa esamini diligentemente quello che conviene all'onestà.
99. E perché noi abbiamo detto che vogliamo conservare il decoro, bisogna che noi sappiamo in quale modo dobbiamo agire sia nei fatti sia delle parole: l'ordine delle parole viene prima, di quello dell'operare: il parlare si divide in due parti; nel ragionamento familiare, e nel trattato, e nella disputa azione della fede e della giustizia. Bisogna osservare e dell'uno, e nell'altro, che non sia perturbato niente. Ma sia mansueto, piacevole, pieno di grazia e benevolenza, ma si parli finalmente senza ingiuriare alcuno. Sia discosta nel parlare familiare la pertinace contenzione; perché ella suole più presto destare vane questioni, piuttosto che arrecare utilità alcuna. La disputa azione sia senza ira, la sua vita priva di ogni amarezza, l'ammonizione senza asprezza, il conforto senza offesa. E siccome in qualunque operazione della nostra vita dobbiamo guardare che il movimento dell'animo troppo gagliardo non escluda la ragione, conviene che teniamo conto del consiglio; così anche nel parlare bisogna che manteniamo una certa forma affinché non si desti o ira o odio o che non si scoprono in noi segni veri di ingordigia o di pigrizia.
100. Questo primo modo dunque di parlare è perlopiù riguardo le scritture divine. Perché di quale cosa è dovere che noi ne parliamo più che dell'ottima conversazione, dei conforti ad osservare, e custodire disciplina? Il suo principio sia con ragione e il suo fine con misura; perché colui che è pigro nel parlare accende ire.
101. Il trattare ancora della dottrina della fede, del magistero della continenza, del disputare della giustizia, del comportare alla diligenza, non sia sempre una medesima cosa; ma l'abbiamo a cominciare, e a finire e definire nel modo che noi possiamo, fino a che ci si offrirà la lezione (che si farà intendere nella danza della Chiesa) ne sia troppo lungo, né troppo breve, o non lasci fastidio, o non dimostri alcuna trascuratezza. Il parlare sia puro, chiaro, semplice, ed aperto, pieno di carità e di peso, non affrettato di eleganze, ma tale che non sia privo di grazia.
CAPITOLO XXIII
102. Gli uomini secolari oltre a questo danno molti precetti circa il modo di parlare, i motti e le facezie, le quali giudico introdotto da lui doversi tralasciare. Perché sebbene talvolta i motti sono onesti, e soavi, niente di meno la regola ecclesiastica li aborrisce. Perché in qualche modo possiamo noi usurpare quelle cose, le quali non abbiamo trovate nelle sante scritture?
103. Bisogna ancora guardarsi nelle recare novelle, che elle non cambino la gravità dei più severi proponimenti. Male per voi che ora ridete, dice il Signore, perché piangerete (Lc 6.21): e noi cerchiamo materia da ridere,sapendo che qui rideremo ma nell'aldilà piangeremo? Già dicono ancora che noi non solamente dobbiamo schifare quelle risate troppo dissolute; ma ancora tutte le parole. Ho già detto che il parlare sia pieno di sua vita e di grazia.
104. Ma che cosa dirò io della voce, la quale giudico che basti, che sia semplice. Perché avere la voce sonora e dono della natura, non viene dall'ingegno: sia pure nel pronunziare distinta, e piena di spirito virile, talché ella fa Luca un certo suono rozzo e villano; non sia già artificiosamente affrettata a guisa di quelli che parlano in scena. Ma sia adatta alla santità dei misteri.
CAPITOLO XXIV
105. Penso di aver detto abbastanza circa il modo di parlare, ora considereremo quello che sia convenevole comperare circa le azioni della vita. Attorno a questo dobbiamo vedere tre cose la prima, che l'appetito non sia ripugnante alla ragione. Per questo modo solamente possono, tra gli uffici nostri, convenire con quel decoro. Perché se l'appetito ubbidirà alla ragione, si potrà in tutti gli uffici facilmente conservare quello che sia conveniente. Poi, che noi non iniziamo a fare una cosa con maggior diligenza, o con minore di quella che ella ricerca, o che noi non iniziamo a farne una piccola con grande apparato, ma una grande con apparato piccolo. La terza è circa il moderare i nostri studi, e le operazioni. Non penso ancora che si debba lasciare indietro l'ordine delle cose, e l'opportunità dei tempi.
106. Ma quella prima e quasi il fondamento di tutte le altre, che l'appetito ubbidisca alla ragione. La seconda, e la terza riguardano la stessa cosa; cioè luna, e l'altra Il moderare. Per questo attorno a noi non si tiene conto della trinità, e della forma liberale, che è tenuta come bellezza, seguita dall'ordine delle cose, e dell'opportunità dei tempi. E per questo tre sono quelle cose, che dobbiamo vedere, se possiamo insegnare che esse siano le impronte in qualche santo.
107. Primariamente dunque il padre Abramo, che fu informato, e istruito nell'insegnare alla futura successione, gli fu ordinato di uscire dalla sua terra e dal suo parentado, e dalla casa di suo padre, benché legata da molta flessione di parentele non fece in modo che l'appetito ubbidisse alla ragione? Perché chi non si diletterebbe di stare nella sua terra, nel suo parentado, e infine nella sua propria casa? Ed egli dunque ancora, come gli altri si trovava dolcemente felice tra i suoi, ma era mosso dal comando celeste, e dall'eterna remunerazione. Non considerava forse, che senza un grande pericolo non si poteva condurre la moglie, debole alle fatiche, tenera alle ingiurie, bella, tanto da accendere gli insolenti? E nientedimeno giudicò essere molto meglio sottentrare a tutte quelle cose, che scusarsi. Di poi andando in Egitto, l'avvertì che dicesse di essere sua sorella, non sua moglie.
108. Bisogna notare da quanti appetiti egli era combattuto. Temeva riguardo l'onore della moglie, temeva riguardo la salute, aveva sospetto le libidini degli egizi; e niente di meno in lui la ragione poté fare altro che eseguire la devozione; perché considero, che col favore di Dio poteva star sicuro per tutto; ma offeso ch'egli avesse il Signore, non avrebbe potuto star sicuro neppure in casa sua. La ragione dunque vinse l'appetito e lo rese ubbidiente.
109. Preso il nipote, non spaventato, né sbigottito dai popoli di tanti re mosse guerra, e vittorioso rifiutò una parte della preda, che per opera sua si era guadagnata. Oltre a questo, quando gli fu promesso un figlio; benché egli considerasse le forze estenuate del suo corpo, come morto, e la sterilità della donna, e l'ultima vecchiezza, contro ancora l'uso della natura, credette a Dio.
110. Notiamo come tutte le cose e lui convennero. L'appetito non mancò, ma fu represso; l'animo parimenti delle sue operazioni si governò, che non intimò le cose grandi per i vili, né le piccole per i grandi. Osservò moderazione delle faccende, l'ordine delle cose, l'opportunità dei tempi, e la misura nelle parole. Nella fede non fu secondo a nessuno, nella giustizia fu eccellentissimo, prode nella guerra, nella vittoria liberale, e accertatore in casa sua dei forestieri, verso la moglie ufficioso.
111. Mentre il suo nipote Giacobbe si dilettava di stare in casa sua sicuro, sua madre volle che egli si allontanasse e desse luogo all'ira del fratello. Questo salutevole consiglio vinse l'appetito. Fuori di casa lontano dei parenti, per tutto nientedimeno tenne convenevole misura alle faccende, e conservò i tempi e le occasioni. Grato in casa ai parenti, tanto che il padre provocato dalla premura del servizio gli diede la benedizione, la madre con pietoso amore vi prese parte. Posto avanti ancora al giudizio del fratello, quando egli pensò di concedere il cibo, si dilettava certo di un nutrimento che fosse secondo natura, e secondo la qualità cedette alla richiesta. Fu fedele pastore del gregge del Signore, al suocero fu ufficioso genero; sollecito nelle faccende, moderato nel mangiare, preveniva nel soddisfare, e largamente remunerava. Infine mitigò in questa maniera l'ira del fratello, che egli si acquistò la grazia sua, laddove egli temeva la sua inimicizia.
112. Che cosa dirò ora video di Giuseppe, il quale grandemente desiderava la libertà, e prese la necessità della servitù? Quanto era egli subito nella servitù, quanto nella virtù era costante, quanto era benigno nel carcere, saggio nell'interpretare, moderato nella potenza, provvido nell'abbondanza, giusto nella carestia, aggiungendo ordine lodevole alle cose, e l'opportunità ai tempi, dispensando ugualmente ai popoli con la moderazione del suo ufficio?
113. Giobbe ugualmente irreprensibile nelle prosperità, e nelle avversità paziente, grato ed accetto a Dio, era continuamente tormentato dai dolori, ma consolava se stesso.
114. David ancora forte della guerra, paziente nelle avversità, in Gerusalemme Pacifico, mansueto nella vittoria, doloroso nei peccati, il provvido nella vecchiezza, fervente per tutte le età tanto nei modi delle cose, e negli ordini dei tempi, che mi pare che egli componesse un immortale cantico al Signore Dio del suo merito, non punto minore nel modo del vivere, che con la soavità per cantare.
115. In quale parte delle principali virtù mancò egli a questi uomini? Nel primo luogo delle quali costituirono la potenza, la quale si occupa nel cercare la verità, e infonde desiderio di maggiore scienza. Nel secondo la giustizia, la quale distribuisce a ciascuno il suo non soltanto quello degli altri: dispregiare utilità propria per mantenere la comune equità. In terzo luogo la fortezza, la quale consiste nell'avere animo grande e invincibile, non solamente fuori nel mestiere della guerra, ma ancora dentro in casa, e nelle forze del corpo. Nel quarto ed ultimo luogo posero la temperanza, la quale conserva la misura e l'ordine di tutte quante le cose, che noi giudichiamo di dover fare o di dire.
CAPITOLO XXV
116. Forse qualcuno dirà che bisognava porre queste cose all'inizio; perché da queste quattro virtù derivano tutte le sorte degli uffici. Ma questa è una cosa che appartiene all'arte, di definire prima che cosa sia ufficio, e poi dividerlo in più parti. E noi fuggiamo l'arte, proponiamo gli esempi dei maggiori, che non ci sono difficili da capire, né ci portano in difficili problemi. Serva dunque la vita dei maggiori per specchio di ammaestramenti, non già per sorgente di inganni.: Ci sia cagione di irriverente imitazione, e non già di fraudolenta disputazione.
117. Fu dunque nel santo Abramo primariamente la prudenza, del quale dice la scrittura (Gen 15.6.): credette Abramo a Dio, e fu reputato a giustizia: per questo non si può chiamare prudente chi non consola Dio. Finalmente fu lo stolto quello che disse (Psal. 13.1): Dio non è; perché un saggio non lo direbbe. E in che modo chiameremo noi saggio quello che non ricerca il suo creatore, che dice ad una pietra: «tu sei mio padre» ; che dice al diavolo, come Manicheo: «tu sei il mio creatore?» Come chiameremo noi saggio colui che vuole presto, come Ario, avere un creatore imperfetto e erroneo, che vero e perfetto? Come saranno nominati saggi quelli che reputano che ci sia un Dio ribaldo piuttosto che buono? Come si dirà che sia saggio colui, che non teme il suo Dio? Con questo si dà che (Psal 110.9.) il principio della sapienza è temere il Signore. E altrove si legge (Prov. 24.7.) : che i saggi non si partono dalla bocca del Signore, ma ne estrapolano le loro confessioni e leggendo la scrittura ancora: egli fu reputato a giustizia; manifestò che l'altra virtù era anche in lui.
118. Primariamente dunque i nostri definirono che la prudenza consisteva nel conoscere il vero. E chi di loro scrisse innanzi ad Abramo, a Davide, a Salomone? Di poi dissero che la giustizia era necessaria per la società della generazione umana. Finalmente disse Davide (Psal. 111.9.): egli ha distribuito e dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno. Il giusto ha misericordia, il giusto dona. Per il giusto e il saggio tutto il mondo è pieno di ricchezze. Il giusto reputa le cose comuni sue proprie, e le sue comuni. Il giusto accusa prima se stesso che gli altri; perché è veramente giusto colui che non risparmia se medesimo e non sopporta che i suoi fatti stiano nascosti. Vedete quanto fu giusto Abramo. Aveva ricevuto secondo la promessa divina un figlio nella sua vecchiezza; e benché fosse unico, quando il Signore Dio lo richiese perché lo sacrificasse, non pensò di negarglielo (Gen. 22.3.).
Vedete che in questo solo atto concorsero tutte quattro le virtù. La sapienza fu non credere a Dio e non riporre l'amore del figlio al di sopra del comandamento del creatore. Fu la giustizia a renderlo poi giusto dopo che lo ebbe ricevuto. Fu la fortezza a frenare l'appetito con la ragione. Il padre lo conduceva per sacrificarlo; il figlio domandava, l'affezione paterna era tentata, ma non vinta; più e più volte ripeteva il figliolo questo nome: padre. E questo lo rattristava, ma non li diminuiva la devozione. Si aggiunge la quarta virtù, cioè la temperanza. Manteneva con giustizia la misura della pietà, e l'ordine dell'esecuzione. Infine mentre portava le cose necessarie al sacrificio, mentre egli accendeva il fuoco, legava il figliolo, alzava il coltello, merito con l'ordinare in tal modo il sacrificio di salvare il figliolo.
120. Che cosa si può immaginare più saggio di Giacobbe, che vide Dio faccia a faccia e meritò di essere da lui benedetto? Che cosa di più giusto, che divise col fratello, e gli donò quelle cose che egli stesso aveva acquistate? Che più forte di lui, che fece la lotta con Dio? Chi più modesto, che conservava tanto la modestia ai luoghi e ai tempi, che volle piuttosto coprire con le nozze l'ingiuria, che gli fu fatta nella figliola, che vendicarsi, giudicando per essere in forestieri paesi, che fosse meglio farsi ben volere, che il tirarsi l'odio addosso?
121. Quanto più saggio Noè che fabbricò una grande arca? Quanto a quelli giusto, che riservato per la conservazione universale, solo fra tutti divenne l'avanzo della passata generazione, ed autore della futura; nato veramente per il mondo tutto che per se stesso. Quanto forte, che vinse il diluvio? Quanto egli fu ancora temperato, che lo tollerò? Che conobbe quando egli aveva ad entrare nell'arca, ed in che modo egli là dentro governava: e quando egli aveva a mandar fuori il corvo che quando la colomba e quando tornando essi li doveva ricevere, e che sette ancora benissimo, quando doveva prendere l'occasione di uscire.
CAPITOLO XXVI
122. Pertanto dicono che nel cercare la verità si deve conservare quel decoro che faccia in modo che con ogni diligenza si ricerchi quello che sia il vero: non prendere cose false per vere, non inviluppare ancora le cose scure con le vere, non occupare infine l'animo in cose superflue, implicate, e dubbiose. Che cosa si può immaginare più convenevole che lavorare le statue, che essi medesimi fanno? Che cosa è più oscuro, che voler trattare dell'astrologia e della geometria: che egli lodano assai; e misurare gli spazi del profondo e la larghezza delle aree e rinchiudere in numeri il cielo, e il mare; lasciare a parte le cagioni della salute, e cercare quelle degli errori?
123. O non seppe queste cose quel Mosé erudito in qualunque scienza degli egizi? Ma egli giudicò tal sapienza non essere altro che danno e pazzia, e levatosi da quelle cerco Dio con tutto l'intrinseco del suo cuore: tanto che egli lo vide, gli domandò, e lo udì parlare. Chi fu più saggio di lui, il quale ha ammaestrato da Dio, con la virtù della sua opera fece divenire vana tutta la sapienza degli egizi, e le potenze di tutte le arti? Questi non teneva le cose incognite per notte, né a quelle a caso aderiva. Le quali due cose primariamente dicono di schivare in questo naturale e codesto luogo coloro che non giudicano essere cosa contro natura, né brutta, adorare i sassi e domandare aiuto alle statue, che non hanno sentimento alcuno.
124. Quanto dunque la sapienza è più eccelsa virtù, tanto non giudico che noi ci dobbiamo sforzare di ottenerla. Pertanto per non aver a fare cosa alcuna che sia contro natura, o brutta, o senza decoro, bisogna che consideriamo queste due cose; cioè il tempo, e la diligenza per poter considerare ed esaminare le cose. Per questo non c'è nessuna cosa che faccia l'uomo più eccellente degli altri animali se non l'essere capace anche di ragione: egli ricerca le cagioni delle cose, pensa che sia da investigare il creatore della sua generazione, che regge e governa il mondo con un solo cenno, al quale noi sappiamo di avere a rendere ragione di tutte quante le nostre operazioni. Perché nessuna cosa ci aiuta tanto a vivere onestamente, quanto il credere di dover avere un giudice, al quale nessuna cosa si occulta: le cose di sconvenienti rechino ingiuria, e le oneste di letto e compiacimento.
125. Tutti gli uomini dunque naturalmente hanno questo desiderio di cercare la verità, la quale tira allo studio del riconoscimento e della scienza, e ne diffonde il desiderio di cercare. E l'essere eccellente pare ad ognuno una cosa bella, ma pochi è data di ottenerla, che compiono una gran fatica immaginar pensieri per la fantasia, in esaminare opinioni per poter prevenire a quel vivere beatamente ed onestamente, ed appellarsi all'operare. Per questo non chi mi dirà signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi farà quelle cose che io dico; perché gli studi delle scienze, senza operare non so se ancora portino sviluppo.
CAPITOLO XXVII
126. La prima fonte dell'ufficio e la prudenza, e meritatamente; perché quale cosa è più ufficiosa, che il rendere a chi ne è l'autore la debita affezione e riverenza? Da quale fonte pure si sparge e si estende nelle altre virtù: perché non può stare la giustizia senza la prudenza, e con ciò è compito della prudenza esaminare quale cosa sia giusta e quale ingiusta. In queste due cose si compie un grande errore; perché sarà odioso presso Dio chi confonderà una cosa giusta per ingiusta; e anche chi replicherà giuste e ragionevoli quelle inique e ingiuste, (Prov. 17.15-16) dice Salomone: Come può nell'imprudente abitare la giustizia? Né dall'altra parte la prudenza è senza la giustizia. Perché la pietà che sia verso Dio e principio dell'intelletto: per questo abbiamo considerato questa cosa esser più presto stata trasferita, che trovata dai saggi di questo secolo, perché la vita è il fondamento di tutte le virtù.
127. E la pietà della giustizia si deve prima Dio, secondariamente alla patria, nel terzo luogo a quelli che siano generati, ultimamente a tutti: la quale stessa è un ammaestramento secondo natura: e con questo vediamo che dall'infanzia subito abbiamo un punto di sentimento, amiamo la vita come dono di Dio, e la patria, e i genitori: poi i nostri pari, la compagnia dei quali noi desideriamo. Di qui nasce la carità, la quale antepone gli altri a se medesima, non cerca le cose che sono sue, nelle quali consiste il principato della giustizia.
128. A tutti gli animali ancora è dato dalla natura il difendere primariamente la propria salute, il guardarsi dalle cose, che possono loro nuocere: il cercare quelle che giovino, come il vitto, i nascondigli in cui si possono difendere dai pericoli e dalle piogge, e dal sole: e questo appartiene alla prudenza. Si aggiunge questo che tutte le specie degli animali siano per natura collegabili insieme, e primariamente con quelli della stessa specie, poi con tutti gli altri siccome noi vediamo i puoi accompagnarsi con gli armamenti, i cavalli con i greggi, e dilettarsi soprattutto i pari con i pari . Vediamo ancora i cervi accompagnarsi con i cervi, e molte volte ancora con gli uomini. Ma che cosa dirò io dell'ingegno che essi usano per moltiplicarsi e verso la propria prole o dell'amore dei generanti: nella qualcosa consiste la principale forma della giustizia?
129. È dunque già chiaro che queste, e le altre virtù sono insieme tra di loro congiunte. Questo sottolinea che anche la fortezza, che difende nelle guerre la patria dai barbari o che difende in casa i deboli o i compagni dagli assassinii, sia piena di giustizia: e alla prudenza, e alla modestia appartiene il sapere in che modo si debba difendere ed aiutare e prendere oltre a questo l'opportunità dei tempi, e dei luoghi: e la temperanza non si sappia in modo alcuno governare senza la prudenza: e l'ufficio della giustizia sia conoscere le occasioni, e ordinatamente distribuire: in tutte queste cose sia necessaria la magnanimità, e una certa fortezza di mente, e molte volte ancora del corpo, per cui possiamo adempiere quello che esso vuole.
CAPITOLO XXVIII
130. La giustizia dunque si riferisce alla società del genere umano, e alla comunità, perché il modo della società si divide in due parti: in giustizia e in beneficenza, la quale si chiama anche liberalità, e benignità. La giustizia mi pare più eccelsa ed eminente, e la benignità più graziosa. L'una contiene in sé severità e l'altra la bontà.
131. Ma presso di noi si esclude dalla giustizia quello che i filosofi giudicarono che fosse il suo primo ufficio. Per questo e gli dicono che la prima forma della giustizia è non nuocere a nessuno, se non si fosse prima ingiuriarti. La qual cosa si leva con l'autorità del Vangelo, perché la scrittura vuole che in noi ci sia lo spirito del figlio dell'uomo, il quale venne a conferire la grazia, non ad ingiuriare.
132. Poi pensarono che la forma della giustizia fosse che le cose comuni e pubbliche si tenessero tali mentre quelle particolari e private si tenessero proprie. E questo non è ancora secondo la natura, perché la natura produce tutte quante le cose in comune per tutti. E per questo il Signore Dio aveva ordinato che così si generassero tutte le cose, che il vitto fosse comune a tutti, e la terra fosse come una certa comune possessione di tutti. La natura dunque generò la ragione comune, e l'usurpare ha fatto la ragione privata. Nel qual luogo dicono che l'opinione degli storici fu che tutte le cose, che produce la terra siano fatte per il servizio degli uomini e che gli uomini siano generati per le comodità degli altri uomini, affinché si possano tra loro l'un l'altro giovare.
133. E da dove hanno preso queste cose, se non dalle nostre scritture? Perché Mosé scrisse (Gen. 1.23) che Dio aveva detto: facciamo l'uomo ad immagine e somiglianza nostra, ed abbia potere sopra i pesci del mare e gli uccelli del cielo, e signoreggi a tutti quanti gli animali che sono sopra la terra; e Davide disse (Psal. 8.8/9): tu gli hai sottoposto tutte le cose: le pecore, i tuoi e tutte le altre bestie della terra: gli uccelli del cielo e i pesci del mare. Hanno dunque preso dai nostri che tutte le cose sono sottoposte all'uomo; e però giudicavano che esse fossero fatte dall'uomo.
134. Abbiamo ancora trovato nei libri di Mosé che gli uomini sono fatti per gli altri uomini, e ha detto il Signore (Gen. 2.18): non è bene che l'uomo sia solo, facciamogli un aiuto a lui somigliante. Per aiuto dunque dell'uomo gli fu data la donna, affinché degenerasse; e affinché aiutasse l'uomo e gli altri uomini. Finalmente fu detto (Ibid. 20.) che da Adamo la donna è stata generata (Ibid. 20.): Non si è trovato un simile a lui, che l'aiuti; perché l'uomo non poteva avere aiuto se non da altri uomini. Tra tutti gli animali pertanto nessuno fu simile all'uomo; e persino nessun animale trovo aiuto dall'uomo: si aspettava dunque per aiuto suo il suo stesso femminile.
135. Dunque secondo la volontà di Dio e secondo la convenienza naturale, ci dobbiamo aiutare l'un l'altro; fare a gara con le operazioni l'un l'altro, come dire, mettere in comune tutte le utilità e per servirsi delle parole della scrittura, aiutare l'un l'altro o con la diligenza o con gli uffici o col denaro o con le operazioni o in qualche altro modo affinché in noi accresca la grazia della società. Perché nessuno per spavento si ritragga dall'ufficio, ma ciascuno giudichi che tutte le cose o prospere, o contrarie esse siano, appartengono a lui. Infatti il santo Mosé non ebbe paura di intraprendere tante grandi guerre per il popolo dei suoi padri, né temette delle armi del potentissimo re, né ancora mancò di coraggio di fronte alla ferocità e alla Barbara crudeltà ma mise da parte la sua propria salute per rimettere il suo popolo in libertà.
136. Pertanto è grande lo splendore della giustizia, la quale è nata per altri più che per se stessa, aiuta la nostra comunità e la nostra compagnia; è tanto imminente che essa tiene tutte quante le cose sottoposte al suo giudizio; dà aiuto agli altri, somministra danari, non nega il suo aiuto, prende sopra di sé gli altrui pericoli.
137. Chi non desidererebbe possedere la rocca di questa virtù, se l'avarizia primariamente non indebolisse, e piegasse il vigore di una tanto grande virtù? Per questo mentre noi desideriamo a crescere in ricchezze, accumulare denari, occupare grandi paesi con le nostre possessioni, e avere più facoltà di qualcun altro, ci spogliamo della forma della giustizia, e perdiamo la beneficenza comune. Perché in che modo può essere giusto chi si sforza e si ingegna nel prendere le cose altrui per sé? Il desiderio ancora della potenza rende effeminata la forma virile della giustizia. E come può intercedere per altri colui che si sforza di sottoporsi agli altri, e come può salvare un debole dalle mani dei potenti chi si ingegna a mettere una grande forza contro la libertà?
CAPITOLO XXIX
138. Si dimostra con gli esempi di Mosé e di Eliseo di dover osservare la giustizia nella guerra con gli stessi nemici: avere gli antichi appreso dagli ebrei il costume di chiamare i nemici con un nome più dolce ed umano: finalmente la giustizia come ha il suo fondamento nella fede e come si pratichi nella chiesa.
139. Quante siano le forze della giustizia, si può vedere da questo che ella non ha eccezione alcuna né di persone, ne di luoghi, vedi tempi e si deve osservare ancora (Cic. De officiis Lib. I) ai nemici intanto che è contro la giustizia, quando se è coordinato con nemico o luogo o tempo da combattere, il prevenire un luogo o il tempo, perché gli è gran differenza se qualcuno è vinto in qualche battaglia o grave conflitto o mediante la divina grazia, o per qualche altro avvenimento. Con ciò che è stabilito che la più grande vendetta si infierisce verso i più potenti ed infedeli nemici i quali hanno più offeso. Di questo abbiamo l'esempio dei madianiti (Num 31.3.) i quali avevano fatto peccare molti tra il popolo dei giudei attraverso le loro donne; dove li l'ira di Dio si sparse sopra il popolo dei padri. Il perché il vittorioso Mosé gli fece ammazzare tutti. E Giosuè (Giosuè 9.20.) non espugnò i Gabaoniti che avevano tentato il popolo dei padri più con le frodi e gli inganni che con la guerra; ma gli ingiuriò assai contro i patti che fece loro. Ed Eliseo (4Reg 6.14) fece che il re di Israele non ammazzasse quelli della Siria che l'assediavano, condotti che li ebbe nella città essendo essi subitamente accecati, né potessero per questo vedere dove essi andassero dicendo: tu non devi ferirli non avendoli tu presi con le tue armi: dà loro il pane e dell'acqua affinche posssano mangiare e bere, e licenziali affinchè tornino dal loro re e mossi dalla cortesia dell'incontro ne rendano il merito. Infine da quel tempo in poi nessuno di quelli della Siria andò ad assassinare in Israele.
140. Se la giustizia dunque può tanto nella guerra, quanto più ella deve essere osservata nella pace? E questa cortesia la usò il profeta verso quelli che lo venivano a prendere. E perciò noi leggiamo in questo modo; che il re di Siria, sapendo che Eliseo era quegli che si opponeva a tutti i suoi consigli argomenti, mandò il suo esercito ad assediarlo. Il qual esercito vedendo Giezi, servo del profeta, cominciò a dubitare dei pericoli della salute; al quale disse il profeta: non aver paura, perché noi abbiamo molti più in compagnia nostra, di quelli che son con lui: e per le preghiere del profeta furono aperti gli occhi del suo servo; e Giezi vide pertanto tutto il monte pieno di cavalli e di carri attorno ad Eliseo: signore Dio acceca tutto l'esercito di Siria. Avendolo ottenuto disse a quelli di Siria: venite con me e vi porterò dall'uomo che voi cercate. E videro quelli che erano venuti per prendere Eliseo, ma non poterono prenderlo. È dunque manifesto che bisogna osservare la fede e la giustizia anche nella guerra, e ce non ci può essere cosa buona laddove è violata la fede.
141. Infine gli antichi chiamavano ancora gli avversari con un nome dolce, (Cic. Lib. I De off. E. 12 ) come egli non avrebbe chiamato i forestieri. Perché il forestiero anticamente era chiamato oste: la qual cosa ancora possiamo dire che egli l'abbiano presa dai nostri padri. E perché gli Ebrei chiamavano i loro nemici Allofili, cioè Alienigeni, per parlare latinamente. Leggiamo questo nel primo libro dei Re (Cap.4 v. 1.): ed avvenne in quei giorni, che gli Alienigeni venissero a combattere con Israele.
142. Il fondamento dunque della giustizia è la fede ( Cic. Lib. I De off. Cap 7). Perché i cuori dei giusti meditano la fede; e chi si accusa giusto colloca la giustizia sopra la fede: perché allora si manifesta la sua giustizia se quel che dice è vero. Pertanto dice Dio tramite Isaia: (Isai. 28.18.) ecco io mando la pietra per fondamento di Sion, cioè Cristo a fondamento della Chiesa; perché Cristo è il fondamento di tutti: e la Chiesa è una certa forma di giustizia, ragion comune a tutti. Fa orazione in comune, opera in comune, in comune è tentata. Infine chi nega sé tutto il giorno, egli è giusto, egli è degno di Cristo. perciò San Paolo ( I Cor. 3.11.) pose Cristo per fondamento, affinchè noi ponessimo le opere della giustizia sopra di lui perché la fede è il fondamento. Ma nelle opere consiste, essendo cattive, l'iniquità; essendo buone la giustizia.
CAPITOLO XXX
143. Ma già è tempo che noi parliamo della beneficienza, la quale ancora si divide in due parti, cioè in benevolenza e liberalità. Da queste due risulta che la benevolenza vuole essere perfetta: perciò non basta solo voler bene ma bisogna anche fare del bene: (Dist. 86 c. Non Fatis ) né basta ancora fare del bene, se esso non nasce da una buona fonte, cioè da buona volontà: per lo che Iddio ama il lieto donatore ( « Cor. 9.7.). Perché se agisci contro la tua volontà, che premio devi avere? La dove l'Apostolo (1 Cor. 9.17.) dice genealmente: se io so questo volentieri, io sono premiato; se lo so per forza, egli mi è commesso l'amministrar L'evangelo. Nell'Evangelo ancora abbiamo molti ammaestramenti della giusta liberalità.
144. È dunque cosa onesta il voler bene e il dispensare con intenzione di giovare e non di nuocere.Perciò se tu pensassi di donare al lussurioso perché potesse spendere nelle cose appartenenti alla lussuria, o ad un adultero per questioni degli adulteri; questa non è beneficenza alcuna, là dove non è benevolenza. Questo è nuocere ad altri, non giovare: se tu donassi a chi vuole cospirare contro la patria, o a chi volesse alle tue spese radunare scellerati per impugnare la chiesa... Questa non è lodevole liberalità: se aiutassi chi volesse aspramente combattere contro la vedove, o i piccoli, o si ingegnasse con qualche forza su qualche loro possessione .
145. Non si approda a quella liberalità con prendere ad alcuni, per donare ad altri; cercare ingiustamente con il pensiero di donare poi giustamente: se già per avventura tu non rendesti prima i quattro doppiamente, come quel (Lc. 19,8) Zaccheo, a colui che tu avessi frodato, e così compensassi i vizi della paganità con lo studio della fede, o con le opere del credere. Si ricerca dunque che la tua liberalità abbia questo fondamento.
146. In primo luogo questo si ricerca: che tu conferisca con la fede, né rubi circa quello che tu dai; che tu non dica di dar di più, né di meno. Perché a cosa serve il dire? La frode è della promessa: è in tua podestà dare quel che ti pare. La frode dissolve il fondamento, e rovina l'opera. Ebbe forse Pietro tanto sdegno, che egli volesse che Anania, o la sua donna (At. 5,3 ss) perissero? Ma non volle che gli altri perissero con l'esempio loro.
147. Neppure quella liberalità è ancora perfetta (Cic. Lib I Offic. C. 13), quando uno si dona più per vanagloria, che per misericordia. L'affezione tua pone il nome alla tua opera. Nel modo che ella esce da te, così è giudicata. Vuoi vedere che giudice costumato hai? Prendi consiglio da te, in quale modo egli abbia ad accettare la tua opera, e domanda prima alla tua mente. Non sappia, dice, (Mt. 6,3) la tua sinistra quello che faccia la tua destra. Non parla del corpo; ma che ancora chi è con te una cosa sola, che il tuo fratello, non sappia quello che tu fai; e ciò perché mentre tu cerchi qui il premio della buona gloria, non perda nello stesso tempo il frutto della remunerazione. Ma la perfetta liberalità è là dove qualcuno con silenzio copre l'opera sua, e occultamente sovviene alle necessità di tutti: questi è lodato dalla bocca del povero, e non dalle sue stesse labbra.
148. Inoltre (Dift. 86. C. Non satis perfecta liberalitas) La perfetta liberalità e commentata dalla fede, dalla ragione, dal luogo, e dal tempo: che per prima cosa tu operi verso gli intrinseci motivi della fede. Grande colpa è se, essendone tu consapevole, un fedele patisce, se tu sai quello che a lui manca, e muoia di fame, o sia oltraggiato, se ancor di più egli si vergogna di andare accattando: se egli incorrerà o in prigionia dei suoi, o nelle calunnie, e tu non lo aiuti: se il giusto soffre in carcere o in pena, o in altro modo, per debito, soffre, afflitto e tormentato: (perché sebbene noi siamo tenuti ad usare misericordia verso tutti; non di meno molto più verso i giusti) se al tempo delle sue afflizioni non ottiene niente da te; se nel tempo del pericolo in cui egli è in pericolo di morte, hanno più potere su di te più i tuoi danari, che la vita di un uomo, che sta per morire. Di ciò diceva bene Giobbe: (Gb. 19,15) su me venivano le benedizioni di quello che periva.
149. Certamente Dio non è un accettatore di persone, perché egli fa tutte le cose; e noi siamo tenuti ad usare misericordia verso tutti. Ma perché molti la cercano con inganni, e fingono di avere grande necessità;si deve usare più largamente la misericordia là dove è più manifesta la ragione, dove si conosce la persona, dove il tempo stringe: perciò Dio non è avaro, che ricerchi molto. È veramente beato chi lascia ogni cosa, e lo segue. Ma è ancora beato colui che fa di cuore quello che egli può. Infine (Lc. 21,3) i due quattrini della vedova furono anteposti ai grandi doni dei ricchi, perché ella donò tutto quello che poteva, mentre quelli diedero solo una minima parte delle tante ricchezze che possedevano. L'affezione dunque è quella che fa l'offerta ricca, oppure povera, e pone il pregio alle cose. Infatti Dio non vuole (Dift. 86. C. Deus non vult) che le ricchezze si scialacquino insieme; ma che elle si spendino per Dio: se già altri non fecero come Eliseo, che (3 Re 19,21) ammazzò i suoi buoi, e diede il cibo ai poveri con quello che aveva, per non avere più alcuna pena familiare, ma lasciate tutte le sue facoltà potesse darsi alla disciplina profetica.
150. È ancora da approvare (Dift c .86. Est probanda) quella liberalità, che se tu vedi qualcuno dei tuoi avere bisogno, gli vai incontro. Perché è meglio che tu vai incontro ai tuoi, i quali si vergognano di chiedere soldi ad altri, o domandare ad altri aiuto per le loro necessità; non però che vogliano per questo arricchirsi con quello che tu potresti dare ai poveri. Perciò qui ha a prevalere la ragione, e non la gratitudine. Perché anche tu non ti sei consacrato al Signore per fare ricchi i tuoi, ma per acquistarti la vita eterna mediante il frutto delle buone opere, e redimere i tuoi peccati con il prezzo della misericordia. Essi pensano di chiedere poco, cercano il tuo premio, si sforzano di toglierti il frutto della tua vita, e pretendono di operare con equità. E uno ti riprende, che tu non lo hai fatto ricco, che ti vuole defraudare del prezzo della vita eterna.
151. Abbiamo messo davanti il consiglio, cerchiamo ora l'autorità. In primo luogo dunque nessuno si deve vergognare, se da ricco diventa povero, per dare ai poveri: perciò Cristo essendo ricco, si fece povero, per potere arricchire tutti con la sua povertà. Ci diede la regola che noi dobbiamo seguire, perciò sappiamo di giovarci molto nell'avere diminuito il patrimonio per diminuire la fame dei poveri, e dare sollievo ai bisognosi. In un luogo dice l'apostolo (2 Cor. 8,10): io vi consiglio in questo, perché questo vi è utile, che voi imitiate Gesù Cristo. Il consiglio si dà ai buoni, ed il correggere frena quelli che sbagliano. Infine a quelli che sono quasi buoni dice (ibidem) che dall'anno passato in qua avete cominciato non solamente a fare, ma anche a volere. Ai perfetti appartiene l'una e l'altra parte di questo, e non una sola. Pertanto insegna, che la liberalità non è perfetta senza la benevolenza, né la benevolenza senza la liberalità. Laddove esorta alla perfezione, dice: (ibidem 11) ma ora procedete con l'operazione, così che siccome l'animo del ben volere si trova pronto in voi; così anche sia disponibile ad eseguire quel tanto che voi potete. Perché se la volontà è pronta, è accetta secondo quello che ella ha, non secondo quello che ella non ha. Non voglio già che il vostro donare sia ragione altrui di vivere dolcemente, e voi ne abbiate a partire; ma voglio per un certo pareggiamento che le vostre ricchezze in questo tempo suppliscano alla loro povertà, e l'abbondare di loro vi faccia scemare le facoltà, perciò siate pari come è scritto: a quelli che raccolsero molto, non avanzò, e a quelli che raccolsero poco, non mancò.
152. Abbiamo veduto quale è compresa la benevolenza, e la liberalità, e il modo, e il frutto, e le persone: però soprattutto il modo, perché egli dava consiglio agli imperfetti. Perciò non patiscono angosce se non gli imperfetti. Ma se qualcuno costituito nel sacerdozio, o in un altro ministero, per non gravare sulla Chiesa, non distribuisse tutto quello che egli ha, ma operasse con onestà quanto basta al suo ufficio, costui non mi pare imperfetto. E penso che egli abbia detto qui angosce, non di animo, ma di cose.
153. Riguardo poi alle persone, penso che egli abbia detto che le vostre ricchezze suppliscono alla loro povertà, e l'abbondare di loro sia ragione del diminuire il vostro, cioè che egli sia l'abbondanza delle buone opere del popolo (che sia intesa) a sollevare la loro povertà con il nutrirli; e la loro abbondanza spirituale aiuti nel popolo la povertà del merito spirituale, e gli conferisca la grazia.
154. Laddove egli pose un ottimo esempio: a coloro che raccolsero poco, non mancò; ed a quelli che raccolsero molto, non ne avanzò. Conforta bene questo esempio tutti gli uomini impegnati nell'ufficio della misericordia: così che quelli che posseggono molto oro, non ne abbondano; perché tutto quello che si trova in questo mondo è niente: ed a quelli che ne posseggono poco, non manca; perché niente è quello che essi perdono. È una cosa senza perdita quella che è tutta perdita.
155. Si può ancora intendere così, ebbene: quelli che hanno molto sebbene non donano non avanza loro; perché qualora essi non acquistino, sempre manca loro, perché desiderano di più: mentre a quelli che hanno poco non manca, perché poca cosa è quella che chiede un povero. Similmente dunque è quel povero che conferisce le cose spirituali per quelle temporali, benché egli ha molta grazia, non abbonda, perciò la grazia non aggrava, ma alleggerisce l'anima.
156. Si può ancora intendere in questo modo: uomo tu non abbondi. Perché quanto è quello che tu hai ricevuto benché ti sembra molto? Giovanni che fu il maggiore uomo che nacque da una donna (Lc. 7,28) era inferiore a quello che il più piccolo nel regno dei cieli.
157. Si può ancora intendere così: la grazia di Dio non abbonda in modo corporale, perché è spirituale. Per ciò che può comprendere la grandezza, la larghezza di quella pur non vedendola? Se la fede fosse grande quanto un granello di senape, può spostare i monti, e a te non è dato più che un granello di senape. Se tu abbondi nella grazia bisogna avvertire che la tua mente non cominci ad innalzarsi per tale dono, perché molti sono quelli che più gravemente sono caduti dalla altezza del loro cuore, che se essi non avessero avuto come punto di Grazia Dio. E a chi ne ha poco, non ne manca; perché ella non è una cosa corporea che si può dividere; e quello che pare poco a chi lo ha, è molto a chi non manca alcuna cosa.
158. È da considerare (Dift. c. 86. Consideranda) ancora nel donare: le età e la debolezza, molte volte ancora la vergogna che manifesta l'essere nato nobile; così tu doni più ai vecchi che con la fatica non si possono più guadagnare il vitto: similmente la malattia del corpo, e questa ancora si deve più prontamente aiutare. Inoltre se qualcuno dalla ricchezza cadesse in povertà, e ancor più se questo non gli avvenisse per una sua mancanza, ma perché avesse perduto quello che egli aveva, oppure per essergli stato rubato, o confiscato, o per calunnia.
159. Ma forse dirai: un cieco siede in un luogo, si passa via, e non riceve cosa alcuna, mentre un giovane gagliardo molte volte riceve. È vero, perché egli chiede con molta importunità. Non è ragione di ciò la elezione, ma il tedio. Perciò il Signore dice nel Vangelo (Lc. 11,8) a proposito di quello che aveva già chiuso la sua porta, che se qualcuno bussa troppo, questo si alza e gli dona il necessario per la sua impotunità.
CAPITOLO XXXI
160. È convenevole cosa, ancora, nel donare, guardare chi ti ha fatto qualche beneficio o dono, se egli poi cadesse nella necessità. Perché quale cosa è più contro all'ufficio, del rendere quello che tu hai ricevuto? Neppure giudico che si deve rendere di pari misura; ma di molto maggiore, e pesare l'utilità del beneficio che tu gli sopravvenga tanto quanto basta a togliergli la sua calamità. Perciò il non essere di gran lunga superiore nel rendere piuttosto che nel conferire i benefici, è un volere essere del tutto inferiore; perché chi dona prima, è superiore di tempo, e precedente per umanità.
161. Perché dobbiamo in questo imitare la natura della terra, la quale è solita prendere la semente ricevuta con numero molto maggiore, che ella non aveva ricevuto. E però è scritto per te (Pro. 24, 30 e 31) L'uomo sciocco è come l'agricoltura, e lo uomo senza sentimento è simile ad una vigna: se tu la abbandonerai si desolerà. Il saggio dunque è ancora come l'agricoltura che restituisce i ricevuti semi con misura maggiore, come se gli fossero stati dati ad usura. La terra dunque ora produce i frutti spontaneamente, o spande indietro e rende fuori le cose piantate con un numero maggiore. Dell'una cosa, e dell'altra sei debitore per un certo uso ereditario della madre terra, per non essere lasciato come un campo non fecondo. Ma, posto pure che qualcuno si possa scusare di non aver dato spontaneamente, come si potrà egli mai scusare di non aver venduto indietro? Il non dare è lecito appena a pochi, ma il non rendere a nessuno.
162. Perciò dice bene Salomone (Pro. 23, 1 e ss.) quando tu siedi a tavola con qualche principe per mangiare, considera diligentemente le cose, che ti sono poste davanti, e metti la tua mano sapendo che bisogna preparare tali cose, ma sei tu sei insaziabile, non desiderare le sue vivande; perché queste cose ottengono una vita falsa. E noi desiderando di imitarlo abbiamo scritta la sua sentenza. È bene il fare dei servigi, ma asprissimo è colui che avendone ricevuti non ne rende in uguale misura. La terra ci pone davanti agli occhi un esempio di umanità: la quale ne produce i frutti che tu non hai piantati; e, quelli che ella ha ricevuto, li restituisce moltiplicati. Tu non puoi negare i soldi che ti sono stati dati in prestito, e come ti sarà lecito non usare la cortesia verso quelli che la hanno usata con te? Hai nei proverbi (Eccl. 3,34), che l'essere grato con quelli che con te sono stati cortesi, può molto davanti a Dio; che ancora nel giorno della rovina trovi grazia, quando i peccati possono preponderare. Ma a quale fine addurrò io altri esempi, promettendo lo stesso Signore nel Vangelo la remunerazione più grande che i meriti dei santi; e ne esorti che noi operiamo bene dicendo: (Lc. 6, 37, 38) perdonate e sarà a voi perdonato: date e sarà a voi donato: vi renderanno nel vostro grembo una misura buona, abbondante, e traboccante.
163. Pertanto quel convito di Salomone non è di cibi, ma di buone opere. Perché di quale cosa godono più gli animi, che delle buone opere? O quale altra cosa può tanto riempire le menti dei giusti, che l'essere consapevoli di avere operato bene? Quale cibo più giocondo che adempiere la volontà di Dio? Il quale cibo solo diceva Cristo di sé abbondare, come è scritto nel Vangelo (Gv. 4,34) il mio cibo è osservare la volontà del Padre mio, che è in cielo.
164. Dilettiamoci di questo cibo, del quale dice il profeta (Sal. 36,4) dilettati nel Signore. Di questo cibo si dilettano quelli che con meraviglioso ingegno hanno compreso le dilettazioni superiori, i quali possono sapere quale è quel mondo ed intelligibile diletto della mente. Cibiamoci dunque di quel pane di sapienza, e riempiamoci nel verbo di Dio; perché non solamente nel pane è la vita dell'uomo fatto ad immagine di Dio, ma ancora in ogni parola di Dio. Ma circa la bevanda assai esplicitamente dice il santo Giobbe (Gb. 29, 23): come la terra aspetta la pioggia, così costoro il mio parlare.
CAPITOLO XXXII
165. È dunque molto a proposito che ci rinfreschiamo con il parlare delle scritture divine e che le parole di Dio cadano sopra di noi come rugiada. Quando dunque tu siedi alla mensa di quel principe, non conosci chi sia questo principe potente; e messo nel paradiso del piacere, e costituito nel convitto della sapienza, considera le cose che ti sono poste davanti. La sacra scrittura è il convitto della sapienza; tanti libri tante vivande sono. Capisci prima quanto delicati sono le vivande che nei preziosi piatti si contengono, e allora metti la mano, cosicché tu esegui con le opere quelle cose che tu leggi, o che ricevi dal Signore tuo Dio, e adoperi con gli uffici la cortesia ricevuta come Pietro e Paolo, i quali con l'evangelizzazione hanno reso un certo cambiamento al donatore del dono, tanto che ciascuno di loro può dire (1 Cor. 15,10) per grazia di Dio sono quello che sono, e la grazia di Dio in me non fu vana: ma io mi sono affaticato più abbondantemente che tutti gli altri.
166. Alcuni dunque rendono il frutto del beneficio ricevuto, oro per oro, argento per argento; altri la fatica: altri, e non so se anche più abbondantemente, restituiscono solamente la affezione, perché come deve fare chi non ha il modo?Nel rendere il beneficio opera più l'animo, che la misura del dono, e vale più la benevolenza, che il poter rendere il dono, perché la cortesia si giudica secondo le forze del rimuneratore. Grande dunque è la benevolenza, la quale ancorché ella niente sborsi, da nientemeno più; e non avendo alcuna facoltà, dona a molti in più, e questo fa senza una sua perdita, e con il guadagno di tutti. Però è più perfetta la benevolenza della liberalità. Più ricca è questa di costumi che quella di doni. Però più sono quelli che hanno bisogno delle cortesie che quelli che ne abbondano.
167. Ma la benevolenza è congiunta alla liberalità, dalla quale viene la liberalità stessa, quando l'utilità del donare segue l'affezione della larghezza, è separata ed appartata, perché dove manca la liberalità, sta la benevolenza come una madre comune a tutti la quale unisce e congiunge l'amicizia, fedele nei consigli, allegra nelle prosperità, e nelle avversità triste, tanto che ciascuno si rimette più nel consiglio di un benevolo che di un saggio; come Davide, il quale benché fosse più prudente nientemeno stava ai consigli (Re 22,44) di Gionata, più giovane. Togli dal consorzio degli uomini la benevolenza, sarà appunto come se tu levassi il sole dal mondo, perché senza essa non può stare il commercio degli uomini, come mostrare la via (Cic. Uff. lib. I. c. 15) ad un viandante, richiamare che sbaglia la strada, alloggiare i forestieri, (non è dunque mediocre virtù quella della quale si gloriava Giobbe (Gb. 31, 32) dicendo fuori di casa mia non stavano i pellegrini; che la mia porta stata aperta a chiunque vi pervenisse: apprestare l'acqua dalla corsia, accendere il lume con lume. La benevolenza pertanto è tra tutte queste cose come una fonte di acqua che rinfresca gli assetati, è come una luce che riluce ancora negli altri, per questo non viene meno a quelli che hanno acceso con il suo lume il lume degli altri.
168. Appartiene ancora alla benevolenza quella liberalità che, se tu hai ragione contro un tuo debitore, gli restituisca stracciando la scritta, senza avere conseguito niente del debito. E che noi dobbiamo fare quello che dice il santo Giobbe (ibidem 35 ss.) con il suo esempio. Dunque chi ha, non ha carta, e chi non ha, non libera la scritta obbligatoria a pagare. Perché dunque conservi tu agli eredi avari quella scritta, ancorché tu non la riscuota, la quale tu non puoi consegnarla loro con lode di benevolenza e senza danno dei denari?
169. E per discutere più pienamente la benevolenza in primo luogo uscita dalle persone familiari cioè dai figli, padri e fratelli, venne nei circuiti delle città per i gradi dei congiungimenti, e uscita dal paradiso riempie il mondo. Finalmente avendo il Signore Dio posto l'affezione della benevolenza nell'uomo e nella donna, disse (Gen. 2, 24) saranno due in una medesima carne, e in un medesimo spirito. Laddove Eva si fidò del serpente perché avendo ricevuto la benevolenza non giudicava esservi la malevolenza.
CAPITOLO XXXIII
170. La benevolenza si accresce con la adunata della Chiesa, consorzio della fede, come la compagnia dei sacrifici, con l'intrinsecità del ricevere la grazia, con la comunione dei misteri: però ancora queste intrinsecità si attribuiscono e tirano con sé la riverenza dei figli, l'autorità e la pietà dei padri e l'amorevolezza dei fratelli. L'intrinsecità dunque della grazia giova molto all'accumulare la benevolenza.
171. (Cic.lib. I c. 16) Aiutano ancora gli studi di simili virtù. Con ciò la benevolenza fa ancora somiglianza nei costumi. Infatti Gionata figlio del re sauro (1 Re 19, 2 ss.) imitava la mansuetudine del santo Davide perché assai lo amava. Là dove è quel detto: (Sal. 17,26) col Santo sarà il santo, non pare da applicarsi solo alla conversazione, ma ancora alla benevolenza. Perciò i figli dei due (Gen. 9,22 ss.) abitavano insieme e non era tra loro concordia nei costumi. Abitavano ancora in casa del padre (ibidem 25, 27) Esaù e Giacobbe: ma era tra loro diverso parere, siccome non c'era benevolenza tra loro tanto che volesse che l'altro gli passasse davanti, ma piuttosto contesa così che (ibidem 27,14 ss.) prendesse la benedizione. Perché essendo il primo di loro aspro e l'altro mansueto, non poteva esserci benevolenza tra i costumi diversi e gli studi ripugnanti. Si aggiunge che il santo Giacobbe non poteva preferire alla virtù un trascinatore della casa.
172. Nessuna cosa è tanto amichevole alla società quanto la giustizia e l'equità la quale, come pari e compagno della benevolenza fa che noi amiamo quelli che noi crediamo che ci siano uguali. Ha la benevolenza ancora in sé fortezza, perché procedendo l'amicizia dalla fonte della benevolenza, non dubita nel sostenere per l'amico pericoli gravi che comportino la vita. E se egli me ne incorre male, sopporto, dice, (Eccl. 21,31) per lui.
CAPITOLO XXXIV
173. La benevolenza ancora è solita trarre di mano il coltello dell'ira. La benevolenza fa che le ferite dell'amico (Pro. 27,6) siano più utili che i volontari baci del nemico. La benevolenza fa che (Cic. Lib I c. 16) da più si faccia un'unica cosa, perché sebbene siano amici, diventano uno dei quali è un medesimo spirito, ed un medesimo parere. Similmente abbiamo considerato che i coinvolgimenti dell'amicizia ci sono grati, essi hanno punture ma non hanno dolore. Perché non ci sentiamo pungere per gli parlari, che ne correggono. Ma ci dilettiamo della benevola diligenza.
174. E per concludere a tutti non si devono sempre i medesimi uffici, ne si debbono ancora sempre preferire le persone, ma il più delle volte le ragioni e i tempi: alle volte è da aiutare piuttosto un vicino che un fratello. Perché Salomone ancora dice: (ibidem 10) è meglio un vicino appresso che un fratello che abiti lontano. E però il più delle volte altri si rimette piuttosto alla benevolenza di un amico, che al parentado di un fratello. Tanto può la benevolenza, che ella vince il più delle volte i regni della natura.
CAPITOLO XXXV
175. Assai copiosamente abbiamo trattato della natura e della forza dell'onesto, appartenente alla giustizia. Trattiamo ora della fortezza, la quale più che le altre si divide nei negozi della guerra, e nei familiari. Ma lo studio delle cose della guerra pare già strano dal nostro ufficio, perché noi rimettiamo più diligenza nell'ufficio dell'animo che in quello del corpo e l'uso nostro non si aspetta alle armi ma ai negozi della pace. Eppure i nostri antichi, come Gesù Nave, Geroboal, Sansone, Davide riportarono grande gloria ancora delle cose della guerra.
176. È pertanto la fortezza una virtù in un certo modo maggiore delle altre, ma mai senza compagnia; perciò mai si fida di se stessa, altrimenti la fortezza senza la giustizia è materia di ribalderie. Perché ella quanto più è robusta tanto più pronta ad opprimere i più deboli: consorti nelle cose militari, la prima cosa si deve considerare se le guerre sono giuste o ingiuste.
177. Davide mai mosse guerra se non provocato. Pertanto nella guerra ebbe la prudenza per compagna della fortezza, perché dovendo combattere corpo a corpo con (1 Re 17,40) Golia che era di statura grandissima, rifiutò le armi da caricarsi, essendo che la virtù si posava più nelle sue braccia che nelle altrui armi. Poi per ferirlo più gravemente da lontano prese una pietra ed ammazzò il nemico. Inoltre mai incominciò una guerra se non con il consiglio del Signore Dio (2 Re 5,19 ss.) però vincitore in tutte le guerre e fino alla decrepita vecchiezza pronto di mano, facendo guerra ai titani, come soldato (2 Re 21,15 ss.) si mescolava nelle feroci schiere desiderando gloria, né tenendo in alcun conto la propria salute.
178. Ma non solo quella virtù è eccellente, ma ancora reputiamo gloriosa la fortezza di quelli, che mediante la fede, con la grandezza d'animo loro (Eb. 11, 33 e 34) chiusero le bocche dei leoni, spensero la forza del fuoco, schivarono l'acutezza dei coltelli, uscirono dalle infermità forti: i quali non attorniati da compagnie e moltitudine di uomini armati riportarono la vittoria come con molti, ma singolarmente trionfarono sui crudeli con la sola virtù dell'animo. Quanto fu invincibile Daniele, che non temette i leoni ruggenti attorno a lui? Fremevano le bestie ed egli si cibava sicuro. (Dan. 14,38)
CAPITOLO XXXVI
179. La gloria della fortezza dunque non consiste solamente nelle forze del corpo e nelle braccia; ma molto più nella virtù dell'animo, né la legge della virtù è nell'ingiuriare ma nello scacciare le ingiurie. Perché chi (23 q. c. non in inferenda) non disfaccia dal compagno le ingiurie potendo, è in colpa simile a quello che fa l'ingiuria. Là dove il santo Mosé (Es 2,1 ss.) di qui cominciò a provare la fortezza militare, perciò avendo veduto che un ebreo era da un egizio ingiuriato, lo difese in tale maniera che egli uccise l'egizio, e lo nascose nella sabbia. Salomone ancora dice (Pro 24,10) libera quello che è portato a morte.
180. È dunque molto chiaro dove Tullio, o Panezio ancora o Aristotele stesso abbiano tratto tutto questo. Che ancora Giobbe più antico che questi due aveva detto molto avanti (Gb. 29, 12 e 13) io trassi salvo il povero dalla mano dei potenti e aiutai il piccolo che non aveva chi lo difendesse, e me ringraziavano quelli che dovevano perire. Non è fortissimo questi, che tanto fortemente sopportò gli impeti del diavolo e lo vinse con la virtù della sua mente? Ne è lecito dubitare della fortezza di quegli al quale dice il Signore (ibidem 40, 2) prepara come un uomo i tuoi lombi, prendi l'altezza e la virtù, abbatti ed abbassa tutti gli ingiuriosi. L'apostolo ancora dice (Eb. 6,18) voi avete un grandissimo conforto. È dunque forte colui che si conforta in qualche dolore.
181. E veramente si chiama fortezza quella quando uno vince se stesso per zelo di Cristo, frena l'ira e non si piega ne si ammorbidisce per allettamenti alcuni, non si turba per le avversità ne si innalza per le prosperità, non si lascia aggirare dalla mutazione di varie cose come da un certo vento. Che cosa è per lui più eccelsa e più magnifica che esercitare la mente, affliggere la carne e ridurla in servitù, così che ella ubbidisca al comando, si attenga ai consigli in modo che nel mettere mano alle fatiche ella esegua prontamente il proposito e la volontà dell'animo?
182. Questa dunque è la prima forza della fortezza perché la fortezza dell'animo si considera in due casi: prima che si giudichino e tengano come minime le cose esteriori del corpo e più presto si disprezzino come superflue quelle che si desiderano, poi che si eseguiscano all'effetto con buona intenzione di animo tutte le cose grandi e tutte quante quelle cose nelle quali si vede l'onestà e quel convenevole. Perché quale cosa è tanto eccellente quanto che tu informi l'animo tuo in tale maniera che ti mantenga in assoluto pregio né le ricchezze né i piaceri, né gli onori; né consumi tutto lo studio tuo in queste cose. Perché quando tu avrai in tale modo accomodato tutto il tuo animo bisogna che tu pensi di avere a preporre quell'onesto e quel decoro, e a quello indirizzare tutto l'animo così che come superiore non senta quello che è solito rubare gli animi: o il perdere le cose, l'onore o le calunnie degli scellerati. Poiché i pericoli della stessa salute presi per la giustizia non ti muovano.
183. Questa è quella vera fortezza che ha l'atleta di Cristo, il quale (2 Tim. 2,5) non è coronato se non ha prima legittimamente combattuto. Ti pare forse mediocre il comandamento della fortezza? (Rm 5,3 Fac. C. I. v. 3.4) la tribolazione opera la pazienza, la pazienza dimostra la perfezione, la perfezione genera la speranza. Vedi quante battaglie, ed una sola corona. In quale comandamento non da, se non quello, che è confortato in Gesù Cristo (2 Cor. 7,5) la cui carne non aveva riposo ma afflizione da ogni banda: di fuori battaglie, di dentro paure. E benché egli si trovasse posto in mezzo ai pericoli, in più a fatiche, in prigioni, in morti, niente meno non mancava di animo ma combatteva tanto che egli diveniva più potente nelle sue debolezze.
184. Pertanto considera in che modo egli insegni, che devono disprezzare le cose umane quelli che vengono alla amministrazione della Chiesa (Col. 2,20 ss.) Se voi dunque siete morti con Cristo dagli elementi di questo mondo, perché ne contrassegnate voi tanto come se in quello vivete? Non toccate, non gustate, non maneggiate quelle cose che nell'usarle vi inviano alla corruzione. E poco di sotto: (ibidem 3,1) se dunque siete resuscitati con Cristo cercate le cose che sono di sopra. Di nuovo (ibidem 5) mortificate dunque le vostre membra che sono sopra la terra. E queste cose fino a qui ha detto a tutti i fedeli. Ma te, figliolo, spingi a disprezzare le ricchezze, a schivare le favole secolari e da vecchierelle, niente permettendoti se non quelle cose che ti esercitano alla pietà, perché l'esercitazione del corpo non è buona cosa alcuna, ma la pietà è utile a tutte le cose.
185. La pietà dunque ti eserciti alla giustizia, alla continenza, alla mansuetudine, così che tu fugga dalle opere giovanili, confermato e radicato in grazia subentri al buon combattimento della fede: non ti impieghi nelle faccende secolari, perché tu militi con Dio. E se a uno che milita per l'imperatore è vietato dalle leggi umane far liti e agitare le faccende mercantili, vendere le merci, quanto più si devono astenere da ogni uso di faccenda quelli che esercitano la milizia della fede, accontentandosi del loro piccolo podere che hanno, se non lo hanno del frutto dei loro stipendi. Con ciò un buon testimonio è quello che dice (Sal. 36,25) io sono stato giovane e sono invecchiato, né ho visto che il giusto sia stato abbandonato, né mai vidi i suoi figli cercare del pane. Perché tale è la tranquillità e la temperanza dell'animo, che ella mai né per desiderio di acquistare si affligge, né per paura di povertà si affanna.
CAPITOLO XXXVII
186. Quella tranquillità di animo ancora scarica di ogni passione è di questa sorta che non si lascia nei dolori essere troppo delicati, né troppo gonfi nelle prosperità. E se costoro che istruiscono chi ha ad esercitarli nel governo della Repubblica, dando questi ammaestramenti, quanto più dobbiamo fare quelle cose che piacciono a Dio noi che siamo chiamati alla amministrazione della Chiesa così che si possa presumere che sia in noi la virtù di Cristo e piacciamo in tal modo al nostro imperatore; che le nostre membra siano armi di giustizia, armi non carnali nelle quali regna il peccato, ma armi forti per Dio con le quali si distrugge il peccato? Muoia la carne nostra così che abbia a morire ogni colpa e così da morte resuscitiamo a nuove opere e costumi.
187. Questi stipendi della fortezza sono pieni di ufficio onesto e bello. Ma perché in tutte quante le cose che noi facciamo cerchiamo non solamente che sia onesto ma ancora quello che sia possibile, così per caso non cominciamo qualche cosa, che poi non possiamo condurre a compimento, là dove il nostro Salvatore vuole che nel tempo che noi siamo perseguitati, (Mt. 20,23) passiamo da una città in un'altra, anzi, per ridire la sua parola, appunto, noi fuggiamo, e ciò mentre uno desidera la gloria del martirio non si asserisca a caso a quei pericoli, i quali forse la carne più debole o l'animo meno forte non possano poi sostenere o tollerare.
CAPITOLO XXXVIII
188. Nemmeno deve qualcuno per pigrizia cedere e abbandonare la fede per paura del pericolo. Si deve con tale grazia preparare l'animo, esercitare la mente e stabilirla con la costanza così che l'animo non si possa turbare per spaventi alcuni, o piegarsi per dispiaceri o infine cedere per i tormenti. Le quali cose difficilmente si possono sopportare. Ma tutti i tormenti si vincono con la paura di maggiori tormenti, però se tu non confermerai con il consiglio l'animo tuo, e penserai, non ti avere a partire della ragione, e ti proporrai la paura del giudizio divino e i tormenti dell'eterno supplizio, potrai facilmente impiegare l'animo tuo a tollerare simili cose.
189. Questo primo dunque appartiene alla diligenza, il prepararsi in tale modo: e quell'altro all'ingegno; cioè se qualcuno può con il vigore della mente vedere prima le cose future, e in un certo modo porsi davanti agli occhi quello che possa avvenire e determinare quello che, succedendo così, si deve fare; talvolta si volgono per la fantasia due o tre cose insieme, le quali egli, per congettura, pensa di poter unire a caso o di per sé, e disporre le operazioni che sa che possono giovare a quelle, insieme o di per sé.
190. All'uomo forte dunque appartiene non il dissimulare quando gli sta per sopraggiungere qualche cosa, ma considerare anzitutto e quasi spiare da una certa veletta della mente e ovviare con prudente pensiero alle cose future, così che non abbia poi a dire: queste cose perciò mi sono venute addosso perché mai avrei creduto che elle non mi potessero avvenire. Pertanto le avversità se non si considerano molto innanzi presto occupano. Siccome nella guerra il non aspettato nemico appena lo si considera, e facilmente può opprimere quando egli non ne trova di ben provvisti, così i mali non aspettati atterrano di più l'animo.
191. Pertanto in quelle due cose constatate quella eccellenza dell'animo, che in primo luogo il tuo animo, esercitato nei buoni pensieri, veda con occhio puro quello che è vero e onesto, perciò (Mt. 5,8) beati sono quelli che hanno il cuore puro perché essi ancora vedranno Dio. E giudichi che sia buono solamente quello che è onesto. In secondo luogo non si turbi per occupazioni alcune e non si lasci trasportare dalle onde dei desideri.
192. La quale cosa, certo, non si fa molto facilmente. Perché quale cosa è così difficile del guardare come inferiori a sé le ricchezze e tutto ciò che dalla moltitudine è stimato grande cosa e eccellente, stando quasi sopra una alta rocca di sapienza? Poi tu confermi con le stabili ragioni il tuo proponimento e disprezzi quelle cose che tu avrai reputate leggere, come quelle che in nessuna cosa ti possono giovare. Inoltre che se tu avessi qualche avversità, e quella fosse ritenuta aspra e noiosa, la sopporti; così da pensare che non ti sia occorsa alcuna cosa contro la natura avendo letto: (Gb 1,21) io sono nato nudo in questo mondo e nudo ne uscirò. Il Signore mi ha tolto quelle cose che egli mi aveva dato, eppure aveva costui perduto i figli e le cose, e mantenga in tutte le cose la persona del saggio e del giusto come chi disse (ibidem) così come è piaciuto a Dio è accaduto, sia ringraziato il nome del Signore. E di poco sotto (ibidem 2, 10) tu hai parlato come una donna poco prudente, se noi abbiamo dalla mano del Signore avuto le prosperità perché non sopporteremo le avversità?
CAPITOLO XXXIX
193. La fortezza dunque non è una cosa mediocre né separata dalle altre virtù dell'animo così che ella abbia a guerreggiare con delle altre, ma è tale che da sola difende gli ornamenti di tutte le virtù e mantiene i giudizi e fa guerra inestinguibile contro tutti i vizi; è invincibile nelle fatiche, forte nei pericoli, rigida contro i piaceri, dura contro gli allettamenti, ai quali non fa prestare gli orecchi, né, come si dice, salutarli; disprezza i denari, fugge l'avarizia come una certa macchia che snerva la virtù. Perché niente è tanto contrario alla fortezza quanto lasciarsi vincere dal guadagno. E molte volte si è visto che, cacciati che sono i nemici ed essendo in fuga l'esercito nemico, il vincitore mentre é trattenuto nello spogliare i morti, viene ucciso miseramente nel mezzo di quelli che egli prima aveva uccisi, mentre le sbandate legioni si occupano dei suoi trionfi e delle spoglie, dopo aver richiamato contro di sé il nemico che gli era fuggito davanti.
194. La fortezza dunque scacci via e soggioghi tanto crudeli feste, né si lasci tentare dai desideri o piegare per paura; perché la virtù sta costante nel perseguitare insieme fortemente tutti i vizi come veleni della virtù, e con certe armi assale l'ira che impedisce il consiglio e la schiva come una malattia. Si guardi ancora dal desiderare la gloria, la quale, senza modo desiderata, molte volte ha nuociuto, così usurpata ha nuociuto sempre.
195. Quale di queste cose o nella virtù mancò al Santo Giobbe, o l'assalì nel vizio? In che modo sopportò egli la fatica della malattia, del freddo, della fame? In che modo disprezzò egli il pericolo della salute? Lo eccitarono forse le ricchezze radunate di rapine, le quali in tanta quantità abbondavano ai poveri? O l'avarizia, i censi, o gli studi dei piaceri e dei desideri? O lo fecero adirare l'ingiuriosa contenzione dei tre re o la tirannia dei servi? Forse la gloria alzava ella al modo dei leggeri, quelli che imprecavano e desideravano gravi pene, se mai avesse celato il suo non volontario peccato o avesse avuto tanto rispetto alla moltitudine della plebe che non lo avesse apertamente palesato al cospetto di ognuno? Perché le virtù non sono d'accordo con i vizi, ma stanno tra loro ferme. Chi è dunque tanto forte come il santo Giobbe al quale si può stimare che fosse inferiore, qualunque si trovò senza pari?
CAPITOLO XL
196. Ma la gloria militare tiene forse occupati alcuni che pensano che la fortezza consista solamente nel mestiere delle armi e giudicano che io mi sia volto ai sopraddetti esempi perché ella mancasse ai nostri. Quanto fu forte Gesù Nave, (Gs. 10,5 ss.) che in una guerra abbatté cinque re, che egli ebbe prigioni con i loro popoli? E poi guerreggiando contro i Gabaoniti e dubitando che la notte non gli impedisse la vittoria, con grandezza di mente e di fede gridò: Si fermi il sole. Ed esso si fermò tanto che egli ottenne la vittoria. Gedeone (Gc. 7,8 ss.) con trecento uomini soli riportò trionfo contro un grandissimo popolo ed un aspro nemico. Il giovinetto Gionata (1 Re 14,1 ss.) in una grande guerra fece buona prova. Ma che dirò io dei Maccabei?
197. Ma prima parlo del popolo dei padri, (1 Mac. 2,35 ss.) che essendo pronti per combattere per il tempio di Dio e per le cose della loro legge; assaliti il giorno del sabato dai nemici con l'inganno, vollero più presto esporre i propri corpi nudi alle ferite piuttosto che combattere per non violare il sabato. Pertanto tutti con pace si esposero alla morte. Ma i Maccabei considerando che per tale esempio potrebbe perire tutta la gente, nel sabato essendo stati ancora provocati alla guerra, vendicarono la morte dei loro innocenti fratelli. Là dove, stimolato poi il re Antioco, muovendo guerra per i suoi capitani Lisia, Nicanore; e Gorgia fu in tal modo battuto con la sua fanteria e le genti orientali, e gli assiri che nel mezzo del campo, pur essendo quarantottomila furono messi in rotta da tremila uomini.
198. Misurate da un suo soldato la virtù del capitano Giuda Maccabeo. Perché (1 Mac. 6,43 ss.) Eleazaro vedendo un elefante che avanzava davanti agli altri vestito con armature regali, pensando che ci fosse sopra il re, preso un corso si gettò nel mezzo della legione, e buttato via lo scudo con ambedue le mani ammazzava la bestia ed andandogli sotto e conficcatagli nella pancia la spada, la ammazzò, pertanto la bestia cadendo uccise Eleazaro ed egli in tal modo morì. Quanta virtù dunque di animo fu questa? In primo luogo che egli non temesse la morte, poi che accerchiato dalle squadre dei nemici si gettasse nella folta schiera di quelli e penetrasse in mezzo all'esercito, e con maggiore ferocia, disprezzata la morte, gettato via lo scudo e con ambedue le sue mani sostenesse la grandezza della bestia ferita, poi le andò più sotto per ferirla meglio, e per la caduta di questa, più rinchiuso che schiacciato, fu nel suo stesso trionfo sepolto.
199. Ne l'ingannò l'opinione, sebbene prima l'aveva ingannato l'abito regale. Perché spaventati i nemici dallo spettacolo di tanta virtù, non si arrischiarono di andare contro di lui, che era disarmato ed occupato dopo la caduta della rovinosa bestia, e ebbero tanta paura che tutti loro si giudicarono inferiori alla virtù di uno solo. Infine il re Antioco figlio di Lisia che era venuto con un esercito di ventimila uomini e trentadue elefanti, in tale maniera bardati che alla levata del sole in ciascuna di tali bestie, non in altro modo che certi monti di armi, splendevano simili ad ardenti fiaccole, spaventato dalla forza di uno solo chiese la pace e così Eleazaro lasciò la pace erede della sua virtù. Ma queste cose sono dette a riguardo dei trionfi.
CAPITOLO XLI
200. Ma la fortezza si sperimenta non solamente nelle prosperità, ma anche nelle avversità, e consideriamo la fine di Giuda Maccabeo. Perché egli (1 Mac. 9,8 ss.) dopo che ebbe vinto Nicanore, capitano del re Demetrio, avendo più sicuramente cominciato la guerra con novecento uomini contro l'esercito del re che era di ventimila, siccome i suoi volevano fuggire per non essere oppressi dalla moltitudine dei nemici, li confortò a scegliere più presto una gloriosa morte piuttosto che vilmente fuggire. Non voglio, disse, che noi in alcun modo macchiamo il nostro onore. Pertanto cominciata la guerra avendo combattuto dalla levata del sole fino alla sera, assalito il lato destro nel quale sapeva esserci la più forte parte dei nemici, facilmente li mise in fuga. Ma mentre inseguiva quelli che fuggivano si lasciò ferire alle spalle. Così trovo più glorioso luogo della morte che non nei trionfi.
201. Per quale motivo aggiungerò io Gionata suo fratello, che combattendo con poca gente contro gli eserciti regali, abbandonato dai suoi e lasciato da solo con due, restaurò la guerra, cacciò il nemico e richiamò i suoi che già fuggivano alla compagnia del trionfo?
202. Hai la fortezza della guerra nella quale è una non mediocre forma della onestà e del decoro tanto che sceglie piuttosto la morte che la servitù, e la bruttezza. Ma cosa dirò io delle passioni dei martiri? E che dire dei fanciulli Maccabei, che non riportarono minore trionfo sul superbo re Antioco, dei loro propri padri? Con ciò quelli vinsero armati, costoro senza armi (2 Mac. 7, 1 ss.); stettero invitti i sette fanciulli accerchiati dalle legioni regali, mancarono i supplizi, cedettero i tormentatori, non vennero meno i martiri. Uno, scorticatogli il capo, aveva mutata la faccia, ma accresciuta la virtù. L'altro, comandato che gli cavasse fuori la lingua così che gli fosse tagliata, rispose: il Dio che udiva (Es. 14,15) Mosé che taceva, non ode solamente quelli che parlano. Egli ode più i taciti pensieri dei suoi che le voci di tutti. Tu hai paura del flagello della lingua e non temi il flagello del sangue? Ha ancora il sangue la sua voce con la quale egli grida a Dio come gridò Abele (Gen 4,10)
203. Cosa dirò io della madre, la quale con animo allegro stava a vedere (2 Mac. 7, 20 ss.) tanti trofei, quante morti dei figli, e si dilettava delle loro voci che morivano come dei dolci canti dei musicisti, vedendo nei figli la bellissima cetra del suo ventre, e l'armonia della pietra più soave che il concerto di ogni altra lira?
204. Cosa dirò dei piccoli fanciulli che ricevettero prima la palma della vittoria che il sentimento della natura? Cosa di Santa Agnese che, posta in pericolo di due grandissime cose, della castità e della vita, salvò la castità e barattò la vita con l'immortalità?
205. Non lasciamo indietro san Lorenzo, che vedendo Sisto suo vescovo esser portato al martirio, cominciò a piangere non la passione di lui, ma l'esser restato indietro lui. E così con queste parole cominciò a chiamarlo: Padre dove andate senza il figlio? Dove andate santo sacerdote senza il diacono? Voi non eravate mai soliti offrire il sacrificio senza il ministro. Cosa dunque vi è dispiaciuto in me? Avete voi visto che io traligni? Ora provate davvero se mi avete eletto ministro proposito. Negate forse la compagnia del vostro sangue a quello a cui voi avete commissionato la compagnia di consacrare il sangue di Cristo e di condurre a compimento i sacramenti? Guardate che il vostro giudizio non si inganni mentre è lodata la sua fortezza. Egli è danno del maestro che ha cacciato il discepolo. Anzi molti uomini dotti e illustri vincono più con le forze dei discepoli che con le proprie. Infatti Abramo offrì il figlio. Pietro mandò avanti Stefano. E voi padre mio mostrate la vostra virtù nel figlio, offrite quello che avete istruito affinché sicuro si conduca alla corona con la nobile compagnia del vostro giudizio.
206. Allora Sisto: io non ti lascio, figliolo, ne ti abbandono; ma guerre più grandi ti aspettano. Noi come vecchi prendiamo la via per combattere più leggermente; a te come giovane aspetta un trionfo più glorioso sul tiranno. Poco dopo verrai: smetti di piangere, mi seguirai dopo tre giorni. Questo numero in mezzo è conveniente tra il sacerdote ed il levita. Non ti spettava di vincere sotto al maestro come se tu cercassi aiuto. Perché desideri la compagnia della mia passione? Io ti lascio tutta la sua eredità. Perché cerchi la mia presenza? I deboli discepoli precedano il maestro; i forti lo seguano perché vincano senza maestro; infatti ormai non hanno più bisogno di ammaestramenti. Così Elia lasciò Eliseo e non gli tolse la virtù. A te dunque affido la successione della nostra virtù.
207. Tale era la loro contesa, degna certamente che per quella combattessero il Sacerdote ed il ministro, chi prima patisse per il nome di Cristo. Dicono nelle favole tragiche, che si sono levati grandi rumori, quando Pilade diceva di essere Oreste, ed Oreste (siccome era vero) affermava di essere Oreste: l'uno per essere ammazzato al posto di Oreste; ed Oreste per non patire che Pilade fosse ammazzato al posto suo. Ma a quelli non era lecito vivere, dato che entrambi avevano commesso parricidio: avendo uno compiuto il fatto, l'altro per averlo aiutato. Qui però non c'era altro che spingeva San Lorenzo se non l'amor di devozione; egli dopo tre giorni che bruciava sulla graticola, sprezzante del tiranno, disse: Sono arrostito, girami e mangia. Tanto vinceva con la virtù la natura del fuoco.
CAPITOLO XLII
208. Ritengo ancora essere da guardarsi, che mentre alcuni son trasportati dal desiderio di troppa gloria, si servano insolentemente del potere e incitino molte volti a perseguitarci gli animi dei Gentili, già spiccati da noi, e li accendano d'ira. Equanti faranno mal capitare per poter star forti e vincere i tormenti?
209. Bisogna anche guardare, che noi non prestiamo gli orecchi agli adulatori. Perché lasciarsi piegare per le adulazioni, non solamente non è atto di fortezza, ma d'estrema poltroneria.
CAPITOLO XLIII
210. Avendo fino a qui ora trattato delle tre altre virtù, resta di parlare della quarta, la quale è chiamata temperanza o modestia: nella quale si considera e si ricerca primariamente la tranquilità d'animo, lo studio della mansuetudine, la grazia della moderazione, la cura dell'onesto, e la considerazione del decoro.
211. Dobbiamo dunque tenere un cert'ordine di vivere, che dalla verecondia derivino certi fondamenti, per essere questa compagna e familiare della piacevolezza della mente, schiava della caparbietà, lontana da ogni superfluo, amante della sobrietà, nutrice dell'onestà e ricercatrice del decoro.
212. Dopo queste cose noi preferiamo conversare con quei anziani che sono tra gli altri reputati i migliori. Perciò siccome il conversare con quelli di pari età è più cosa soave, così coi vecchi è cosa più sicura: perché con un certo ammaestramento come guida della vita, colora i costumi dei giovinetti, e gli tinge quasi con la porpora della bontà. Perciocchè se quelli che non son consapevoli dei luoghi, sono soliti mettersi in cammino con guidatori esperti, quanto più devono i giovani entrare coi vecchi nel nuovo cammino della vita, per non errare, ne deviare dal diritto cammino della virtù? Perché nessuna cosa è più bella che avere i medesimi per ammaestratori della vita e testimoni della stessa.
213. In qualunque azione ancora si deve ricercare ciò che conviene alle persone, ai tempi e alle età, e ancora ciò che è secondo la natura di ciascuno: perché spesso la medesima cosa a uno si richiede, e all'altro è disdicevole; ed una cosa sta bene al giovane, un'altra al vecchio; una si conviene nei travagli, un'altra nella prosperità:
214. Danzò David davanti all'arca del Signore, non danzò Samuele, né perciò egli meritò reprensione; ma questi fu più lodato. Mutò sembianza davanti al Re, che si chiamava Achis. E s'egli avesse fatto questo, rimossa la paura, per non esser conosciuto, non avrebbe potuto riportar biasimo di leggerezza. E Saul avendo attorno una moltitudine di Profeti, prosperò ancora egli: ma di lui solo, come di non degno di diceva: Saul ancora è tra i profeti.(1 Re 19,24).
CAPITOLO XLIV
215. Ciascuno dunque conosca la sua natura, ed applichi a quelle cose, le quali egli avrà scelto come atte a sé. Pertanto consideri molto bene innanzi che compito si assume. Che non conosca solamente le sue virtù; ma anche i suoi vizi, e sia giusto giudice di se stesso, parta dai vizi e in seguito le virtù.
216. Uno è più atto a leggere, un altro è più bravo a cantare, un altro è più sollecito a liberare coloro che sono tormentati da spiriti maligni; un altro più atto ad amministrare i sacramenti. Tutte queste cose consideri il Sacerdote e destini ciascuno a quel compito al quale egli è più atto. Perché ciascuno sa con maggior grazia quelle cose alle quali ha inclinazione della natura, e ciò che più gli conviene.
217. Ciò in tutti i mestieri è difficilissimo, nelle nostre operazioni difficilissimo. Perché ciascuno preferisce continuare la vita del Padre. Infatti molti vogliono abbracciare la vita militare e portarsi alla guerra, perché i loro padri sono stati soldati, ed altri per lo medesimo rispetto s'appigliano a diversi lavori.
218. Ma nell'ufficio ecclesiastico non si può trovar cosa più rara che quello che voglia seguire l'istituzione del Padre, o perché gravi occupazioni spaventano o perché l'astinenza è più difficile nella sdruccevole età, o perché questa vitta par più strana alla pronta giovinezza, e però si volgono a quei mestieri che giudicano più piacevoli e plausibili. Perché i più prepongono le cose preferite alle future. Essi pensano alle cose presenti non alle future. La dove la ragione è migliore tanto più si deve attendere.
CAPITOLO XLV
219. Facciamo dunque di avere in noi la verecondia e la modestia che innalzano tutto il bello della vita. Perché non è poco tenere misura in tutte le cose, e compatire quell'ordine nel quale veramente riluce quel che noi chiamiamo decoro: che in tal cosa si accompagna con l'onesto, che non si può separare. Così ciò che è conveniente e anche onesto; quello che è onesto è conveniente tanto che vi è più distinzione nelle parole che separazione nella virtù: perciò che si può conoscere la differenza tra loro, ma non si può esprimere.
220. Per sforzarci di trovare qualche distinzione. L'onesto è come se noi dicessimo la sanità ed un certo benessere del corpo; il conveniente poi è la venustà e la bellezza. Siccome la bellezza pare che sia migliore, che la sanità ed il benessere del corpo; e nientedimeno non può sussistere senza di queste ne in modo alcuno essere separati: perché non vi può essere la bellezza e la venustà la dove non si trova la sanità; così nel medesimo modo l'onesta contiene in se quel decoro, tanto che pare uscito da lei e che senza di essa non possa essere in nessun modo. Siccome dunque l'onestà è la salute delle nostre azioni e compiti; così la bellezza è il decoro, il quale mescolato con l'onestà, si distingue solamente con l'opinione. Perciò sebbene pare eccellente in qualcuno; non di meno nelle radici dell'onesta: ma a guisa di un fiore bellissimo che senza di lei cada ed in quella fiorisca. Perché qual cosa è l'onestà se non quella che fugge la bruttezza, non altrimenti che la morte? E che cosa è la sconvenienza se non quella che non apporta la sterilità e la morte? Verdeggiando dunque la sostanza della virtù, risplende quel decoro a guisa di fiore; perché è salva la radice: ma guasta la radice del nostro proponimento, niente ne produce.
221. Hai questo più chiaramente espresso nei nostri. Perché David dice: il Signore ha regnato e si è vestito di bellezza (Sal 92,1); e l'Apostolo dice: camminate onestamente come di giorno (Rm 13,13). Quello che è detto dai greci (Euschimonos), questo significa appresso di noi di buon abito e di buona speranza. Dio quando fece l'uomo, lo formò di buona abitudine, di buona disposizione di membra, e gli diede una perfetta bellezza. Non gli aveva concesso la remissione dei peccati: ma poiché lo rinnovò di spirito, e gli infuse la grazia; quegli, che venne in forma di servo, e in apparenza d'uomo, prese la bellezza della Redenzione umana: e però disse il profeta: il Signore ha regnato, e si è vestito di bellezza. Dice in un altro luogo: A te Signore si conviene l'inno in Sion (Sal 64,2). Egli è onesto, che noi ti temiamo, ti amiamo, ti preghiamo, ti onoriamo perché è scritto: tutte le vostre cose si facciano onestamente (1 Cor 14,40). Ma noi possiamo temere un uomo, amarlo, pregarlo onorarlo. L'inno si dice specialmente a Dio. Questa, come più eccellente cosa, che l'altre è conveniente credere, che lo dobbiamo a Dio. È conveniente ancora che la donna faccia orazione in abito ornato: ma specialmente che ella preghi velata, e che preghi promettendo castità con buona conversazione.
CAPITOLO XLVI
222. È dunque il decoro quello che in tutte le cose predomina, la cui divisione è doppia. Uno è il decoro generale sparso universalmente per tutta l'onesta: che quasi per tutto il corpo si dimostra, e ve ne è un altro speciale; quello cioè che in qualche parte peculiarmente risplende. Il generale è come quando egli ha una pari ed universale forma in ogni suo atto corrispondente e consonante; che tutta la sua vita consenta a se medesima, né sia in alcuna cosa discrepante. Lo speciale, quando nelle sue virtù egli ha qualche atto eccellente.
223. Avverti ancora che insieme sta il decoro e il vivere secondo la natura, secondo la natura governarsi: e brutta cosa è quella che si fa contro l'ordine della natura. L'Apostolo dice quasi domandandosi: sta bene che la donna faccia orazione a Dio senza velo in capo? Né la natura stessa ve lo insegna; che se l'uomo si lascia crescere i capelli, già è vergogna; perché questo è contro all'ordine della natura? (1 Cor 11,13) ed inoltre dice: Ma la donna se ha i capelli è di onore (Ibid.15); perciocché è cosa naturale, servendo quelli per velo; perché questo è un velame naturale. la natura dunque ne concede la persona, e la bellezza che noi dobbiamo mantenere: e iddio volesse che noi potessimo mantenere la sua innocenza e che la nostra malizia non la mutasse.
224. hai questo decoro in universale; perciocché Iddio fece questo mondo bello. L'hai in particolare, perché quando il Signor Iddio ebbe fatta la luce e distinto il giorno e la notte, creato il cielo separato la terra e il mare; dopo che ebbe ordinato che il sole la luna, le stelle risplendessero sopra la terra approvò ciascuna cosa. Dunque questo decoro che riluceva in ciascuna parte del mondo, risplendette nel tutto, come prova la Sapienza che dice: io ero quella a cui faceva festa , rallegrandosi poiché egli ebbe compito il mondo (Pro 8,30-31). Similmente adunque nella fabbrica del corpo umano è graziosa la proporzione di qualunque membro. Ma molto più ne diletta in comune l'atta composizione delle membra, che paia, che le quadrino e convengano tra loro.
CAPITOLO XLVII
225. Se qualcuno dunque osserva l'ugualità e la misura di tutta la sua vita e di ciascun atto, e custodisce ancora l'ordine e la costanza delle parole e dei fatti, e la mediocrità della sua vita, risplende quel decoro, e riluce come in uno specchio.
226. Si aggiunga nientedimeno il soave parlare, per conciliarsi l'affezione degli uditori, e renderti grato ai familiari o ai cittadini o se è possibile a tutti; ne sia adulatore, ne voglia ancora essere adulato da altri: perché l'una di queste cose è atto di troppa astuzia, l'altra di vanità.
227. Non tenga poco cono di quello che si stimi di se qualunque persona, e massimamente dai buoni. Disprezzare i giudizi dei buoni, è o da uomo arrogante o da troppo sciolto: l'una si attribuisce a superbia l'altra a negligenza.
228. abbia ancora cura ai movimenti dell'animo suo; perché esso deve osservare se medesimo e guardarsi d'ogni intorno, e siccome deve guardarsi per rispetto di se medesimo, e così da se stesso difendersi. Perciò vi sono certi movimenti, nei quali è quell'appetito che in un certo modo impetuosamente salta fuori. La dove è detto dai greci (ormì), per gettarsi egli ad un tratto con una certa forza. È in questi una certa non mediocre forza d'animo e di natura: la quale forza nondimeno è di due forti: l'una posta nell'appetito; l'altra nella ragione, la quale deve raffrenar l'appetito, e renderselo obbediente, e guidarlo dove ella vuole, sicché gli insegni quasi con diligenti ammaestramenti quel che bisogni fare, e ciò che è da schivare, per obbedire a lei, che gli è buona domatrice.
229. Perciò noi dobbiamo esser molto più cauti di non far qualche cosa a caso, o senza considerazione, o della quale noi non possiamo al tutto render ragione probabile: perché sebbene noi non abbiamo a render conto ad ognuno delle nostre faccende; sono nientedimeno da ognuno esaminate. Ne abbiamo cosa nella quale ci possiamo scusare; perché sebbene in ogni appetito è una creta forza di natura; nientedimeno il medesimo appetito è sottoposto per la legge della stessa natura alla ragione, e la obbedisce. La dove al buon pensatore appartiene considerare in tal materia innanzi coll'animo, che l'appetito non possa prevenire la ragione, ne abbandonarla, acciò col prevenirla non la perturbi ed escluda, e con l'abbandonarla non la lasci. La perturbazione toglie la costanza: l'abbandonare questa è segno di viltà, e ne dimostra pigrizia. Perciocché perturbata la mente, l'appetito si spande in più larga e più profonda maniera, e non diversamente che una bestia schiva impetuosamente i freni, ne sente alcun reggimento della sua guida, col quale si possa ritirare; il perché molte volte quando l'animo è perturbato, non solamente si perde la ragione, ma ancora si infiamma il volto o per l'ira, o per la libidine, impallidisce per la natura, per il piacere non sta in se, e brilla per la troppa allegrezza.
230. Mentre quelle cose avvengono, si perde quella severità naturale e gravità di costumi, né si può mantenere quella costanza, la quale sola può mantenere la sua autorità, e quel che sia convenevole nell'eseguire gli impegni e nei consigli.
231. Ma l'appetito più grave nasce per il troppo sdegno, il quale il più delle volte è acceso dal dolore della ricevuta ingiuria. Circa questa cosa ammaestrano sufficientemente i comandamenti del salmo posto da noi nel proemio. Ci torna molto utile, che scrivendo riguardo gli uffici, ci serviamo di quell'allegato iniziale (cap. 2.6 e 7): la quale essa stessa appartiene all'ammaestramento dell'ufficio.
232. Ma perché io ho accennato sopra brevemente (come si doveva) come ciascuno può vedere, che non ci sia ingiuria dubitando che la prefazione non fosse troppo lunga, preferisco parlarne ora più largamente; infatti è il punto giusto che, nelle parti sulla temperanza io dica in che modo si freni l'ira.
CAPITOLO XLVIII
233. Voglio pertanto mostrare che vi sono tre sorte di persone nelle scritture divine che ricevono ingiurie. La prima sono quelli che da peccatori sono scherniti, oltraggiati, molestati e incitati come da acuti sproni. A questi tali, perché manca la giustizia, cresce la vergogna. Aumenta il dolore. Nel numero di costoro sono molti del mio ordine, del mio numero. Pertanto se qualcuno fa un'ingiuria a me debole, ancorché io sia debole, perdonerei quell'ingiuria. Ma se egli mi rimproverasse qualche brutto vizio, io non sono così perfetto che mi basti la mia coscienza, ancorché io sapessi di non aver errato, ma come infermo mi sforzo di lavare la macchia della mia onesta vergogna. Dunque io riscuoto occhio per occhio, dente per dente, e ricompenso villania per villania.
234. Ma se io sono nella via della perfezione (benché non ancora perfetto)n non rispondo alle villanie; e sebbene egli sbottoneggia verso di me, e riempie le mie orecchie di villanie io taccio e non rispondo alcuna cosa.
235. Ma se io son perfetto (per esempio sia detto, perché in realtà io son debole) benedico quelli che dicono male, come faceva anche Paolo che dice: noi siamo maledetti e benediciamo (1 Cor 4,12); perché egli aveva udito il Signore che diceva: amate i vostri nemici, pregate per quelli che vi calunniano e perseguitano (Mt 5,44). Però Paolo era perseguitato e sopportava, perché sia vinceva sia mitigava l'affezione umana per amore del premio propostogli di diventare figlio di Dio se egli avesse amato il nemico.
236. Non di meno possiamo insegnare che il Santo David non fu inferiore a Paolo in questa sorta di virtù: il quale prima ricevendo villanie dal figliuolo di Semei, e rinfacciategli alcune scellerataggini, taceva e si umiliava e nascondeva i suoi beni; e questo per essere egli consapevole delle sue buone azioni: in seguito desiderava di essere oltraggiato, perché con quelle villanie cercava la misericordia di Dio.
237. Guarda un po'in che modo egli abbia mantenuto l'umiltà, la giustizia e la prudenza di meritare la grazia di Dio. Prima dice: questi mi dice villanie perché il Signore gli ha detto che me ne dica (2 Sam 16,20) vedi l'umiltà perché egli come un servo giudicava di dover sopportare pazientemente quelle cose che gli erano comandate dal Signore Dio. Inoltre disse: ecco che mio figlio, che è uscito dal mio ventre, cerca la mia morte(Ibid 11). Hai la giustizia. Perciò se noi sopportiamo, dà a noi le cose più gravi; perché sopportiamo noi indegnamente quelle fatte dagli estranei? In terzo luogo disse: lasciagli dirmi questa villania, perché vuole così il Signore per vedere la mia umiltà e rendermi la benedizione per questa villania che io sopporto (Ibid12). Né sostenne solamente che lo ingiuriasse di parole ma anche quando lo perseguitava o lapidava lo lasciò andare senza offesa alcuna; anzi dopo la vittoria chiedendogli perdono volentieri glielo accordò.
238. Ho deciso di insegnare ciò, che il santo David, guidato dallo spirito evangelico, non solo non offese quello che gli disse villania; ma gli fu anche grazioso e più presto si dilettò che egli inasprisse per le ingiurie e per queste giudicava di dover essere perdonato. Ma non di meno, benché fosse perfetto, cercava cose ancor più perfette. Si scaldava per il dolore dell'ingiuria come uomo, ma vinceva con lo spirito come buon soldato. Tollerava come buon combattente (perché il fine della pazienza è aspettare le cose promesse); e però diceva: dimmi Signore il mio fine e il numero dei miei giorni perché sappia quel che mi manca (Sal 38,5). Cerca quel fine delle promesse celestiali o quello quando ciascuno resusciterà nel suo ordine: prima Cristo poi quelli che son di Cristo che hanno creduto nella sua venuta, poi sarà la fine (1Cor 15,23). Perché consegnato il Regno a Dio Padre e annullate tutte le podestà inizia la perfezione come disse l'Apostolo. Qui dunque c'è l'impedimento, qui l'infermità ancora dei perfetti; e qui la totale perfezione. Però ricerca quei giorni della vita eterna che sono e sussistono; non che passano, così che conosca quel che gli manca: quale sia la terra di promessa che produce i frutti perpetui: quale sia la prima stanza appresso al Padre, quale la seconda, quale la terza nelle quali si riposa ciascuno secondo la proporzione dei propri meriti.
239. quelle cose dunque dobbiamo con tutte le forze cercare, nelle quali è la perfezione e la verità. Qui c'è l'ombra, qui l'immagine, qui la verità. L'ombra è nella Legge, l'immagine nel Vangelo, la Verità in cielo. Prima si offriva l'agnello, si sacrificava il vitello, ora si offre Cristo; ma si offre come uomo, quasi ricevente la passione; e offre se medesimo come sacerdote per cancellare i nostri peccati. Qui in immagine, lì in verità dove egli intercede per noi come nostro avvocato presso il Padre. Qui dunque andiamo in immagine e in immagine vediamo; lì faccia a faccia dove è compiuta e consumata la perfezione perché tutta la perfezione consiste nella verità.
CAPITOLO XLIX
240. Dunque mentre che noi siamo qui serviamo l'immagine e così arriviamo lì alla verità. sia in noi l'immagine della giustizia l'immagine della sapienza; perché noi giungeremo a quel giorno e saremo giudicati secondo l'immagine.
241. Non trovi in te il nemico la sua immagine, non la rabbia non il furore, perché in queste cose è l'immagine della nequizia. Perciò il diavolo nostro nemico ringhiando come un leone cerca chi ammazzare, chi divorare. Non trovi desiderio di oro non copia di argento non immagini dei vizi cosicché, non ti privi della voce della libertà. Perché la voce della libertà è che tu dica: verrà il principe di questo mondo e non troverà niente in me (Gv 14,30). Pertanto se tu sei sicuro che lui non trovi niente in te quando verrà a considerarti dirai quel che disse il patriarca Giacobbe a Labano: guarda se vi è niente di tuo verso di me(Gen31,32). Beato giustamente Giacobbe presso il quale Labano non poté ritrovare cosa alcuna di suo, perché Rachele aveva nascosti i simulacri dei suoi dei.
242. Pertanto se la tua sapienza se la fede, se il disprezzo di questo mondo, se la tua grazia nasconderà ogni perfidia sarai beato, perché tu ( cfr Sal 29,5) non guardi nelle vanità né nelle false stoltezze. Ti pare forse cosa mediocre chiudere la bocca all'avversario così che non possa avere autorità di riprenderti? Pertanto chi non riguarda nelle vanità non si turba: però chi vi guarda, si turba, e di sicuro inutilmente. Perciò cos'è radunar ricchezze se non vanità? Perché cercare cose caduche, è cosa vana. E quando tu le avrai accumulate che sai tu se potrai goderle?
243. Non è cosa vana che un mercante consumi notti e giorni in viaggio per accumulare tesori, raduni mercanzie, si turbi dei prezzi perché non venga a vendere meno di quanto ha comperato, osservi i prezzi dei luoghi e provochi subito gli assassini verso di se per l'invidia dei famosi traffici: o non aspettando venti più prosperi; mentre che egli cerca il guadagno non volendo aspettare, perisca in mare?
244. o non si turba ancora vanamente chi raduna con grandissima fatica e non sa quale erede abbia a godere il suo? Molte volte succede che il lussurioso erede dissipi con un veloce scialacquamento quello che l'avaro radunò con grandissima ansietà; e che il brutto scialacquatore, cieco delle cose presenti, improvvido delle future, inghiottisce come un ingordo baratro, le cose per lungo tempo acquistate. Spesso ancora lo sperato successore si concita invidia per l'acquistata verità e con una morte immediata dà facoltà agli estranei di entrare nella sua successione.
245. A che proposito tessi la tela del ragno che è vuota e senza frutto e ti servi, come di reti, dell'inutile abbondanza delle ricchezze le quali anche se traboccano, non giovano a nulla; anzi ti spogliano dell'immagine di Dio e ti vestono dell'immagine dell'uomo? Se qualcuno si veste la forma e l'immagine di un tiranno non egli stesso sottoposto alla dannazione? Tu poni da banda l'immagine dell'imperatore Eterno e innalzi in te l'immagine della morte. Caccia invece l'immagine del diavolo dalla città dell'anima tua e ponici l'immagine dio Cristo. Questa rifulga in te, nella tua città, cioè risplenda nell'anima che cancella le immagini dei vizi delle quali David dice: Signore nella tua città ridurrai a niente le loro immagini (Sal 72,20). Perché quando il Signore Dio avrà dipinta quella Gerusalemme ad immagine sua allora si cancellerà ogni immagine degli avversari.
CAPITOLO L
246. Che se nel Vangelo del Signore ancora il popolo stesso è informato e ammaestrato a disprezzare le ricchezze, quanto più bisogna che vi asteniate da desideri terreni voi, leviti, la cui porzione è Dio? Perciò dividendosi da Mosè il possesso della terra dei padri al popolo, il Signore eccettuò i leviti dal consorzio del possesso della terra per essere Egli il fine per loro e il sostenimento dell'eredità. Da ciò dice David: il Signore è mia parte di eredità e mio calice (Sal 15,5). Infine questo vuol dire levita: esso è mio, ovvero egli è per me. Grande dunque è il suo dono; che di lui il Signore dica :esso è mio, ovvero come Egli disse a San Pietro di quella moneta in corpo a quel pesce: la darai loro per me e per te (Mt 17,26). Da qui l'Apostolo ancora quando egli ebbe detto che il vescovo deve essere sobrio, pudico, ornato, accogliente dei forestieri, ammaestratore, non avaro, non litigioso, ben orinato per la sua casa, soggiunse: bisogna similmente che i diaconi siano gravi, non di due lingue non dediti al troppo vino, non esperti del brutto guadagno, ma abbiano il mistero della fede in pura coscienza e costoro prima siano approvati e così amministrino, non avendo alcuna macchia (1 Tim 3,8).
247. Consideriamo quante cose si ricerchino in noi: che il ministro del signore si astenga dal vino; che egli sia fortificato dalla buona testimonianza non solo dei fedeli, ma anche di quelli che sono di fuori. Perché gli è conveniente che dei nostri fatti e delle nostre azioni ne sia testimone quello che pubblicamente si giudica e afferma non derogare al grado, di ciò chi vede il ministro dell'altare ornato di convenienti virtù, predichi il Creator ed onori il Signore che ha tali servi. Perciò la lode del Signore è là dove è l'irreprensibilità, e l'innocente disciplina della famiglia.
248. Ma che dirò io della castità, quando gli son permesse le prime nozze, ma mai le seconde? È dunque legge del matrimonio di non ripeterle, ne cercare mai di congiungersi con la seconda moglie. Il che fa meravigliare molti perché le nozze ripetute prima ancora del Battesimo generino impedimento all'elezione del grado e prerogativa degli ordini; con ciò anche sei peccati non sono soliti nuocere se gli son cancellati nel Battesimo. Ma questo dobbiamo intendere, perché nel battesimo si può perdonare il peccato non si può cancellare la legge: nel matrimonio non è peccato ma legge. Pertanto quello che è di colpa si cancella nel Battesimo: quel che è di legge non si scioglie col matrimonio. E in che modo può esortare alla vedovità colui che ha frequentato il matrimonio?
249. Ma voi che avete ricevuto la grazia del sacro Ministero col corpo integro, con la pudicizia inviolabile, alieni ancora dal consorzio coniugale sapete che si deve amministrare senza offesa alcuna, in modo immacolato, senza violare questo compito con alcun atto di matrimoniale commercio. Ho voluto dire ciò perché in alcuni luoghi più nascosti pur amministrando o ancora sacrificando hanno avuto figli, e in questo si difendono con la vecchia usanza quando si sacrificava per intervalli di giorni: e non di meno ancora il popolo stava casto due o tre giorni per venire puro al sacrificio, come leggiamo nel vecchio Testamento; e lavava i suoi vestimenti. Se aveva tanta osservanza nella figura, quanta ce ne deve essere nella verità? Appaia sacerdote e levita che cosa sia lavare i tuoi vestimenti, perché tu purifichi il tuo corpo per celebrare i sacramenti. E se al popolo era vietato avvicinarsi alla propria vittima se prima non aveva lavati i suoi vestiti, tu che hai il corpo e la mente così immondi, hai l'ardire di supplicare in favore degli altri, hai l'ardire di amministrare agli altri?
250. Non piccolo è l'ufficio dei leviti dei quali dice il Signore: ecco io eleggo i leviti nel mezzo dei figli di Israele per ogni primogenito che nasce nei figli di Israele, costoro saranno il pregio della redenzione e saranno miei leviti. Perché io ho santificato per me i primogeniti nella terra d'Egitto (Num 3,12-13). Abbiam visto che i leviti non sono contati tra gli altri ma sono a tutti preposti; ma tra tutti sono eletti e sono santificati come le primizie dei frutti, che si offrono al Signore: e in questi c'è l'adempimento dei voti e la redenzione dei peccati. Dice: non li riceverai tra i figli di Israele e ordinerai i Leviti sopra il tabernacolo del testimonio e sopra tutti i suoi vasi, e l'altare e tutte quelle cose che gli sono sopra. Essi tolgano il tabernacolo e tutti i suoi vasi, ed essi amministrino in quello, ed essi pongano le tende attorno al tabernacolo e nel muovere le tende, essi, leviti, depongano il tabernacolo, e nel ricostruirle di nuovo essi riordinino il tabernacolo sopradetto qualunque estraneo vi si avvicinerà subito muoia (Num 1,49ss).
251. Tu dunque sei eletto di tutto il numero dei figli di Israele reputato come primogenito tra i sacri frutti, preposto al tabernacolo, affinché tu proceda nel campo della santità e della fede; e se qualche estraneo vi si accosterà muoia: sei posto e destinato a coprire ossia a custodire l'arca del testamento. Infatti, non tutti vedono il profondo dei misteri perché son coperti a loro dai leviti, affinché non vedano coloro che non devono vedere, ne prendano quelli che non possono conservare. Mosè infine vide la circoncisione spirituale ma la coprì e scrisse molto avanti la circoncisione in un segni. Vide ancora gli azzimi della sincerità e della verità: coprì la passione del Signore col sacrificar l'agnello o il vitello; e i buoni leviti osservarono il ministero della loro fede sotto questo velo; e a te sembra poco ciò che ti è affidato? In primo luogo che tu veda le cose profonde di Dio: il che appartiene alla sapienza; dopo che tu ordini le guardie per il popolo: il che appartiene alla giustizia; che tu difenda le squadre e custodisca il tabernacolo: il che appartiene alla fortezza; e che tu ti ingegni di essere continente e sobrio: la qual cosa è compito della temperanza.
252. Queste sorti principali di virtù ordinarono ancora quelli che sono fuori. Ma giudicarono che l'ordine della comunità fosse superiore all'ordine della sapienza; con ciò affinchè essendo la sapienza fondamento, la giustizia sia opera che non possa stare se non ha fondamento. E il fondamento è Cristo.
253. La prima dunque è la fede che è la sapienza come dice Salomone imitando il padre: il principio della sapienza è il timore del Signore (Prov 9,10; Sal110,10) e la Legge dice: ama il Signore tuo Dio, ama il prossimo tuo (Dt 6,5). È dunque bella cosa che tu ponga nel comune della generazione umana la tua grazia e i tuoi uffici. Ma più eccellente cosa è che tu affidi a Dio quella cosa che hai di più prezioso cioè la tua mente della quale non hai cosa alcuna più eccellente. Quando tu avrai pagato il debito al Creatore, potrai collocare le tue azioni a beneficare e ad aiutare gli uomini e prestare aiuto alle necessità o con denari o con l'ufficio, o ancora con qualche dono: il che si vede largamente nella vostra professione. Con i denari che tu provveda; liberi chi è legato da un debito: con l'ufficio che tu prenda ad osservare quelle cose che teme di perdere colui che le aveva date in deposito.
254. Ufficio dunque è mantenere e rendere un deposito. Ma talora succede un tal cambiamento o per tempo o per necessità, che non sia un ufficio da rendere a lui quello che tu avrai accettato in deposito: come se qualche manifesto nemico aiutando i barbari contro la patria ti chiedesse i denari, o se tu gli rendessi ad uno, che avesse attorno chi subito glieli rubasse; se tu li restituissi a un matto che non sapesse mantenerli; se tu non negassi ad un pazzo un coltello da lui datoti da lui in custodia col quale egli si uccida: non sarebbe questo pagamento o questa restituzione contro all'ufficio? Non è ancora contro l'ufficio ricevere in custodia quelle cose che tu sappia che sono rubate per ingannare quello che le aveva perdute?
255. è ancora spesso contro l'ufficio osservare la promessa, mantenere il giuramento: come Erode, che giurò di dare alla figlia di Erodiade ciò che ella gli avesse chiesto e ammazzò Giovanni per mantenere la promessa. E che dirò io di Iefte che sacrificò la figliola che dopo la vittoria gli si fece incontro prima che alcuna altra cosa per adempiere al voto, che egli aveva promesso di offrire a Dio la prima cosa che gli capitasse innanzi. Molto meglio sarebbe stato non promettere tali cose che disobbligarsi da tal promessa col parricidio.
256. Voi sapete quanto giudizio bisogna avere nel considerare quelle cose. E però è faticoso eleggere tale levita che custodisca le cose sacre, non si inganni col consiglio, non abbandoni la fede, non tema la morte, non faccia cosa alcuna a meno che in modo temperato, che mostri gravità nella stessa presenza, convenendogli massimamente aver continenti non solo l'animo ma anche gli occhi e questo per qualche fortuito riscontro non violasse la fronte della sobrietà. Perché: chi guarda una donna con desiderio cattivo ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt5,18). Così l'adulterio non si commette solamente con l'atto stesso ma anche con l'intenzione del vedere.
257. Grandi appaiono queste cose e troppo severe ma non sono superflue in quest'ufficio: poiché tanta è la grazia dei leviti che di essi disse Mosè nelle benedizioni: date a Levi quelli che sono veramente e manifestatamente suoi, date a levi la porzione del suo aiuto, e le sue verità all'uomo santo che lo hanno tentato nelle tentazioni e maledetto sopra l'acqua della contraddizione. Quello che dice a suo padre e a sua madre: io non vi conosco; e ai suoi fratelli: io non so chi voi siate; ed ha cacciato da sè i figli; questi custodisce le tue parole e osserverà il tuo testamento. (Dt 33,8ss).
258. Quelli dunque sono i suoi veramente e manifestatamente che non hanno nessun inganno nel cuore, non nascondono nessuna frode; ma custodiscono le sue parole e le custodiscono nel loro cuore, come le custodiva Maria Santissima: che sappiano di non dover preferire i suoi parenti al proprio ufficio; che abbiano in odio coloro che violano la castità, vendichino l'offesa della pudicizia; conoscano i tempi degli uffici; quello che sia maggiore e quello che sia minore, quello che sia più adatto a qualunque tempo e che seguano solamente quello che è onesto; e dove si ritrovino due onesti, pensino di dover preporre quello che è più onesto. Costoro sono da lodare giustamente.
259. Se qualcuno dunque manifesta la giustizia di Dio, e offre l'incenso: benedici Signore la sua virtù, ricevi le azioni delle sue mani (Dt 33,10) perché egli trovi la grazia della benedizione profetica presso Colui che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.
LIBRO SECONDO
CAPITOLO I
1.Abbiamo fin qui trattato degli Uffici, che noi giudicavamo convenire all'onestà nella quale non dubitavamo che sia posta la vita beata, detta nella Sacra scrittura, detta vita eterna. Perciò lo splendore dell'onestà è tanto che la tranquillità della coscienza e la sicurezza dell'innocenza sono quelle che rendono la vita beata. Però siccome il sole del giorno nasconde il globo della luna e le altre luci delle stelle, così il chiarore dell'onestà dove risplende con vera e incorrotta bellezza offusca tutte quelle cose, che sono reputate buone secondo il piacere del corpo, o secondo il mondo, ritenute chiare ed illustri.
2.Beata certamente che non è giudicata da giudizi estranei ma come giudice di se, coi suoi propri sentimenti si impara. Perché ella non ricerca come premio le opinioni del popolo ne le teme per supplizio. Pertanto quanto meno cerca gloria, tanto più è superiore a quella. Perciò a quelli che ricercano la gloria, l'ombra delle cose future è già premio delle presenti che impedisce la vita eterna. E questo è scritto nel Vangelo: in verità vi dico essi hanno già ricevuto il loro premio (Mt 6,2); quelli cioè che fanno ogni sforzo per mostrare la liberalità che usano verso i poveri come se con la tromba lo notificassero; e altresì del digiuno che fanno solamente per ostentazione: loro hanno, dice, il loro premio.
3. All'onestà dunque appartiene o usar misericordia, o digiunare segretamente così che appaia che tu aspetti il premio solamente dal tuo Dio e non dagli uomini. Perché chi cerca di essere premiato dagli uomini ha già il suo premio; ma chi lo aspetta solo da Dio, ha la vita eterna che non la può concedere se non l'autore dell'eternità come si vede qui: oggi sarai con me in paradiso (Lc 23,43). Da qui la Scrittura chiamò più espressamente vita eterna quella che sia tanto felice da non poter dipendere in nessun modo dalle opinioni degli uomini, ma che si lascia al giudizio divino.
CAPITOLO II
4. Pertanto i filosofi posero la vita beata, altri nel non avere dispiaceri, come Girolamo, altri nel soddisfacimento delle cose, come Erillo, che sentendo da Aristotele e da Teofrasto lodare meravigliosamente la scienza delle cose, giudicò che essa fosse la sola ad essere il sommo bene nonostante che essi l'avevano lodata come cosa buona ma non come l'unica buona. Altri la posero nel piacere come Epicuro. Altri furono dell'opinione di Califone, e dopo di lui Diodoro, il primo di raggiungere il piacere, l'altro di non avere dispiaceri, il consorzio dell'onestà perché senza di quella non ci può essere vita beata. Zenone stoico ritenne che il sommo bene fosse solamente quello che è onesto; e Aristotele e Teofrasto e gli altri peripatetici ritennero che la vita beata fosse nella virtù, cioè nell'onestà; ma affermarono che la felicità si compie perfettamente ancora con i piaceri del corpo e con i beni esteriori.
5. Ma la Sacra Scrittura ha posto la vita beata nel conoscere la divinità e nel frutto delle buone opere. Finalmente dell'uno e dell'altro abbiamo detto la testimonianza evangelica. Perché circa la scienza così disse Gesù Cristo nostro Signore: questa è la vita eterna che conoscano Te, l'unico vero Dio e Gesù Cristo che Tu hai mandato (Gv17,3); e circa le opere così rispose: chiunque lascerà la casa i fratelli le sorelle, le proprietà per Mio nome riceverà cento volte tanto e riceverà la vita eterna (Mt19,29).
6. Ma perché non si giudichi questa essere cosa nouva, e trattata prima nei filosofi che trattata prima nel Vangelo, anche se i filosofi, cioè Aristotele Teofrasto, Zenone e Girolamo siano stati anteriori al Vangelo, ma altresì posteriori ai profeti, sappiano costoro quanto prima che si udisse ricordare e il nome dei filosofi che ambedue queste cose furono apertamente dette per bocca del santo Davide. Infatti è scritto: beato l'uomo che tu, Signore, avrai educato e gli avrai insegnato la tua legge (Sal93,12) e in un altro passo abbiamo: beato l'uomo che teme il Signore e desidera i suoi comandamenti (Sal111,1). Abbiamo insegnato della conoscenza il cui premio ha detto il Profeta, essere frutto dell'eternità, aggiungendo che tali cose sono nella casa di colui che teme Dio ed è ammaestrato nella legge, e che desidera fare i divini comandamenti: onore e ricchezza bella sua casa e la sua giustizia dura per sempre (Ibid 3). Circa le azioni aggiunge ancora nel medesimo salmo che all'uomo giusto è dovuto per premio la vita eterna. Alla fine dice: felice l'uomo pietoso che dà in prestito, disporrà le sue parole nel giudizio e non sarà rifiutato in eterno; in memoria eterna sarà il giusto (Ibid 5-6). E poco sotto: egli ha distribuito e dato ai poveri, la sua giustizia dura pe sempre (Ibid 9).
7.La fede dunque ha la vita eterna perché il fondamento è buono; ce l'hanno i buoni fatti; questo affinché l'uomo giusto si esprima con le parole e con i fatti. Perché se si sarà esercitato nel parlare e non nell'operare, scaccerà con le opere la sua prudenza; ed è molto peggio sapere quel che tu dovresti fare e non fare quel che sai di dover fare. D'altra parte ancora fare opere buone ed essere con i discorsi poco fedele è come se tu volessi edificare un alto muro sopra un fondamento pessimo; tanto che quanto più costruisci più si distrugge; perché le buone azioni non possono stare senza la forza della fede. La nave se è messa male nel porto si guasta e un terreno arenoso presto cede né può sopportare il peso di un edificio costruitogli sopra. La sapienza del premio dunque è la dove c'è la perfezione della virtù ed una certa uguaglianza della modestia nelle parole e nei fatti.
CAPITOLO III
8. E perché gli si è rifiutata la sola scienza delle cose o come vana opinione secondo le superflue dispute filosofiche; o come non perfetta consideriamo quanto senza scrupoli la Sacra Scrittura dichiari il suo parere circa questa cosa; della quale noi vediamo, essere implicate e confuse tante questioni nella filosofia. Perché la Scrittura afferma, niente è ben se non ciò che è onesto e giudica la virtù essere felice in ogni stato; la quale non si accresce mediante i beni esteriori o del corpo; né per l'avversità diminuisca: niente è beato se non quello che è lontano dal peccato pieno di innocenza, abbandonato alla Grazia di Dio. Perché è scritto: Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi e non sta nella via dei peccatori, e non siede nel pestilente seggio, ma la sua volontà è nella legge del Signore.(Sal 1,1-2). Ed in un altro luogo: Beato quelli che non hanno errato nella legge degli empi, ma vanno nelle vie del Signore.(Sal 118,1).
9. l'innocenza dunque e la scienza fanno l'uomo beato; e sopra abbiamo notato, la beatitudine della vita eterna esser e il premio delle nostre azioni. Rimane dunque che, spregiato il patrocinio del piacere o la paura del dolore ( l'uno come troppo delicato e molle, l'altro senza forze e debole) io dimostri che la felicità si acquista nei dolori. Il che mi sarà facile insegnare avendo letto: Beati voi quando sarete oltraggiati e perseguitati e sarà detta ogni ingiustizia contro di voi. Rallegratevi e gioite, perché gande è la vostra ricompensa nei cieli. Perché così hanno perseguitato i profeti prima di voi (Mt5, 11-12). E in altro luogo: Chi vuol venire dietro a Me rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua. (Mt16,24).
CAPITOLO IV
10. Dunque la felicità è nei dolori (che la virtù piena di soavità frena e smorza) di intrinseche ricchezze o per la coscienza o per la grazia, per se medesima abbondante. Perché non fu poco beato Mosè quando insieme col popolo dei padri solcò le onde marine come se fossero terra con meriti di pietà essendo accerchiato dalla moltitudine degli egizi e racchiusa nel mare: perché quando fu gli fu più forte Mosè che allora accerchiato da strani pericoli non disperava della salute ma domandava il trionfo?
11. Che diremo noi di Aronne quando si tenne egli più beato, quando stette nel mezzo dei vivi e dei morti, e col contrapporsi fermò la morte per non passare dai corpi dei morti alle schiere dei vivi? Che del giovane Daniele che era tanto saggio, che posto tra leoni per la fame rabbiosi, per niente temeva la crudeltà di tali bestie, tanto estraneo alla paura, che egli poteva mangiare, né temeva di provocare col suo esempio le bestie al pasto di se stesso?
12. È dunque ancora la virtù nel dolore, la quale ha in se la soavità della buona coscienza; e però è segno, che il dolore non rompe tanto il piacere della virtù. Siccome dunque niente allontana la felicità dalla virtù mediante il dolore così anche non gli si avvicina per i piaceri del corpo o per comodità alcuna. E circa questo diceva ottimamente l'Apostolo: io per amore di Cristo ho giudicato che tutte queste cose che prima per me erano un guadagno ora sono delle perdite (Fil 3,7-8). E aggiunge: per il quale ho reputato queste cose dannose e le stimo come sterco per guadagnare Cristo (Eb 11,26).
13. Infine Mosè stimò che i tesori degli egizi fossero per se un danno e a quelli oppose gli obbrobri della croce del Signore ne allora fu ricco quando Egli abbondava di denari; né poi fu povero quando gli mancava il vitto se già per sorte non paresse essere stato neppure felice allora, quando nel deserto gli mancavano le quotidiane vettovaglie per se e per il suo popolo, ma gli era continuamente somministrata dal cielo la manna, cioè il pane degli angeli. Il che nessuno ardirà dire che non fosse il sommo bene e di gran felicità. Ancora le carni abbondavano di continuo per vivande di tutta la moltitudine di grande abbondanza.
14. Mancava il pane anche al santo Elia (1Re 17,6) per il vitto se egli lo avesse cercato: ma non pareva che gli mancasse perché non lo cercava. Pertanto per il quotidiano servizio era nutrito la mattina dai corvi e la sera con il pane e la carne. Era forse per questo poco felice, per essere quanto a se povero? Anzi era felicissimo perché egli era ricco quanto Dio. Perciò per lui è meglio esser ricco per altri che per se, come era questo, che nel tempo di grande carestia che se il cibo ad una vedova dalla quale egli era andato per ottenere che l'orcio della sua farina non venisse meno per tre anni e sei mesi; e che tanto tempo ancora bastasse alla povera vedova l'orcio dell'olio per il suo uso quotidiano. Giustamente dunque Pietro voleva stare laddove egli vedeva costoro. Giustamente apparirono costoro sopra il monte in gloria con Cristo; perché egli ancora si rese povero essendo ricchissimo
15. Nessun aiuto pongono le ricchezze alla vita beata. Il che lo dichiarò apertamente il nostro Salvatore nel Vangelo, dicendo: beati i poveri perché dicessi è il regno die cieli, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati. Beati voi che ora piangete perché riderete (Lc 6,20ss). Abbiamo pertanto in modo chiarissimo provato che la povertà, la fame, il dolore, che son ritenute avversità, non solo non sono impedimento alla felicità, ma ancor di più aiuto.
CAPITOLO V
16. Ma quelle cose che ancora appaiono prospere: ricchezze abbondanza, allegrezza, tranquillità d'animo sono al frutto della beatitudine dannosa ci è ampiamente dichiarato dal giudizio del Signore quando egli dice: guai a voi ricchi che avete i vostri premi, guai a voi che siete sazi al presente perché avete fame(Ibid 24ss). E per quelli che ridono perché piangeranno. Così dunque i beni del corpo e quelli esteriori non solo non sono di aiuto alla vita beata ma anche di grande fastidio.
17. Perché quindi fu beato Nabot ancora mentre era lapidato dal potente, perché essendo povero ed infermo, fu molto ricco solamente d'animo e di religione contro le ricchezze regali, che egli non volle vender al Re la vigna della sue eredità paterna per i denari; e per questo fu perfetto, perché col proprio sangue difese le ragion i dei suoi antenati. Quindi ancora fu infelice il re Acab, secondo il suo parere, perché egli aveva fatto uccidere quel poveretto per occupare la sua vigna.
18. Certa cosa è che la sola virtù è il sommo bene, e che ella da sola basta al frutto della vita beata, e che la felicità non si consegua con i beni esteriori o del corpo, ma con la sola virtù mediante la quale la vita eterna si acquista. Perché la vita beata è il frutto delle cose presenti e la vita eterna è la speranza di quelle future.
19. Non di meno sono molti che pensano che sia impossibile che la vita beata sia in questo corpo tanto infermo, tanto fragile nel quale bisogna affannarsi, dolersi, piangere, sopportar malati; come se io dicessi che la vita beata consista in una certa allegrezza del corpo, e non nell'altezza della sapienza, nella soavità della coscienza, e nella altezza della virtù. Perciò è cosa felice non il rimanere nelle passioni, ma vincerle; né lasciarsi sopraffare dalle perturbazioni del dolore temporale.
20. Si supponga che sopravvengano quelle cose che possono portare gravi dolori, come la cecità, l'esilio, la fame, lo stupro della figlia, la perdita dei figli. Chi dirà che Isacco non fosse beato, lui che nella sua vecchiaia non vedeva, ma distribuiva le beatitudini con le sue benedizioni? Non fu anche felice Giacobbe che fuggiasco dalla casa paterna, divenuto pastore mercenario sopportò l'esilio, vide macchiare la pudicizia della figlia e sostenne la fame? Non sono dunque felici coloro, la cui testimonianza per la loro fede ricevette Dio, quando Egli dice: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe (Gen 34,1)? Meschina è la servitù ma non già meschino è Giuseppe; anzi completamente felice poiché posto in servitù frenava le libidini della sua signora. Che dirò io del santo David che pianse la morte di tre suoi figli(di Amone, Assalonne, e di quel fanciullo che gli nacque da quella che era stata moglie di Uria), e quello che è di queste cose più aspro, l'incesto della figlia? Cosa diremo noi che non era beato lui, dalla cui successione nacque l'Aurora delle beatitudini, che rese felici quasi un'infinità di persone? Perché beati sono quelli che senza aver veduto hanno creduto (Gv20,29). Furono ancora nel sentimento dell'infermità, ma ne uscirono forti. Che cosa è più faticoso del santo Giobbe o nell'incendio della casa o nell'istantanea morte di dieci figli, o nei dolori del corpo? Forse egli non fosse felice se non avesse sostenuto quelle cose, nelle quali fu provato?
21. Non di meno si conceda che egli avesse mescolato con queste cose, qualche asprezza: qual dolore non nasconde la virtù dell'animo? Dirò io che il mare non sia profondo, perché le sponde sono facili da guadare? Non negherò che il cielo sia sereno perché esso è talvolta nuvoloso, né neanche che la terra sia fertile perché in certi luoghi si trova solo sterile ghiaia. O che le biade siano grasse perché esse son solite aver mescolata l'avena non feconda. Nel medesimo modo, pensa di essere molestata la ricolta dalla coscienza tranquilla da qualche aspro dolore. O se per avventura accade qualche avversità o amarezza, non si nasconde essa come fertile avena, nelle vicende di tutta la vita beata o si copre come l'amarezza del loglio nella soavità del grano? Ma già è tempo di tornare al nostro profitto.
CAPITOLO VI
22. Abbiamo fatto nel libro passato una divisione di questa maniera, in modo che in primo luogo si tenesse l'onesto e il decoro, dal quale derivano gli uffici; in secondo luogo abbiamo messo l'utile. E come abbiamo detto nel primo che tra l'onesto e il decoro c'è una certa distinzione, che è più facile da comprendere che da esprimere; così parlando al presente dell'utile, sembra da considerare ciò che più sia utile.
23. Non stimiamo l'utilità secondo il guadagno dei denari, ma con l'acquisto della pietà, come dice l'Apostolo: la pietà è utile a tutte quante le cose, contiene le promesse della vita presente e futura(1Tim 4,8). Troviamo pertanto, se noi cerchiamo diligentemente che nella sacra scrittura si chiama spesse volte utile quello che è onesto. Tutte le cose mi sono lecite ma non tutte utili (1Cor 6,12).Sopra parlava dei vizi, ora dice: si può peccare ma non è conveniente. I peccati sono in nostro potere ma non sono onesti. Il lussureggiare è facile ma non giusto; perché il cibo non si raccoglie per Dio ma per il ventre.
24. Dunque perché quel che è utile è anche giusto, è utile che noi serviamo Cristo, che ci ha riconquistati. Però giusti sono quelli che si offrono alla morte per il suo nome; ingiusti quelli che sfuggirono questa cosa dei quali è scritto: che utilità hai dalla mia morte se perisco? (Sal 29,10). Cioè che acquisto della mia giustizia? Da dove: leghiamo il giusto perché egli ci è di inciampo(Is 3,10). Cioè ingiusto che ci riprende condanna corregge; benché quello si possa riferire anche all'avarizia degli uomini empi la quale è vicina alla perfidia siccome noi leggiamo di giuda il traditore, che per avarizia e desiderio di denari incorse nel laccio del tradimento.
25. di queste utilità dunque dobbiamo trattare, che sia piena di onestà come definì l'Apostolo con queste stesse parole: dico questo per vostra utilità non per rendervi un laccio ma per sollecitarvi all'onestà. È dunque manifesto che ciò che è utile è anche onesto e giusto; e quel che è onesto e anche utile e giusto; e quel che è giusto è utile e onesto. Perché io non indirizzo questo ragionamento a mercanti per la sfrenata voglia di denari, ma a voi figli, e parlo di quegli uffici che io cerco di inculcare e infondere in voi quali ho eletti nel ministero di Dio, perché quelle cose che per l'usanza e le istituzioni nelle menti e nei vostri costumi sono impiegate e impresse, si manifestino ancora col parlare e la disciplina.
26. Dovendo parlare dell'utilità mi servirò di quel versetto del profeta: volgi il mio cuore alle tue parole e non all'avarizia (Sal118,36) perché il suono dell'utilità non desti il desiderio dei denari. Infine in certi testi si legge: Piega il mio cuore alle tue parole e non all'utilità; a quella cioè che sta attenta alle piazze dove si guadagna, a quella impiegata e derivata per usanza degli uomini agli studi del denaro: perciò volgarmente si chiama utile solo quello che apporta guadagno. E noi trattiamo di quell'utilità che si cerca con i danni per guadagnare Cristo, il guadagno del quale è la pietà con la sufficienza: gran guadagno certamente con il quale noi acquistiamo la pietà la quale è presso Dio ricca non di caduche facoltà, ma di doni eterni nei quali ci sia non una certa tentazione, ma una costante e perpetua grazia.
27. Si trova dunque secondo la divisione dell'Apostolo, una utilità corporale, un'altra della pietà. Perché l'esercitazione corporale è utile a poco, la pietà è utile a tutte le cos.(1 Tim 4,8). E cosa è più onesta dell'integrità? Cosa è così bello quanto il mantenere il corpo immacolato e la pudicizia inviolata ed incontaminata? Che cosa è ancora tanto grazioso quanto una vedova che osservi la fede al passato marito? Che cosa è ancora più utile di questa con la quale si acquista il regno dei cieli? Perché ci sono molti che per il regno dei cieli si sono castrati (Mt 19,22).
CAPITOLO VII
28. E dunque non solo c'è familiarità tra l'onesta e l'utilità ma sono il medesimo appunto. Perciò chi voleva aprire a tutti il regno dei cieli, non cercava ciò che fosse utile per se, ma a tutti. La dove dobbiamo cercare un certo ordine e grado, ancora da queste cose utili e comuni, per quelle che sono più eccellenti, per cavar maggior utilità da più cose.
29. E per prima casa dobbiamo sapere che niente è più utile, quanto l'esser ben voluto; nulla tanto inutile quanto il non esser amato: perché reputo che sia dannoso e troppo capitale l'esser odiato. Pertanto sforziamoci con ogni diligenza di farci tenere in buona reputazione e opinione da tutti e di entrare prima nell'affezione degli uomini con la piacevolezza della mente, e con la benignità dell'animo. Infatti la benignità è favorita dai popoli e piace a tutti e non c'è nessuna cosa che penetri tanto facilmente nei sentimenti umani. Questa se è aiutata dalla mansuetudine dei costumi, dalla facilità d'animo, da comandamenti moderati, dall'affabilità del parlare, e da onore delle parole e da pazienza scambievole nei ragionamenti, e dalla grazia della modestia che è incredibile quanto accresca la grandezza dell'amore.
30. Perché noi abbiamo letto quanto profitto abbia l'esser facile, lusinghevole e affabile; non solo per le persone private ma anche per i re, ed al contrario quanto abbia nociuto la superbia e l'asprezza nel parlare che ha portato perfino a rovinare regni, e mutare stati. E se qualcuno si acquista la grazia del popolo col consiglio, con le azioni, col ministero e con gli uffici, o se qualcuno si espone a qualche pericolo per tutta la moltitudine, non c'è dubbio che da tutto il popolo gli sia portato tanto amore, che metterà davanti la sua salute e grazia alla propria.
31. Quante villanie inghiottiva Mosè fattegli dal popolo; e benché il Signor Iddio li volesse castigare per le loro insolenze; non di meno frequentemente per il popolo si offriva per salvarlo dall'ira divina? Con quante parole amorevoli chiamava il popolo dopo che aveva ricevuto ingiurie da lui, lo confortava nelle fatiche, lo addolciva con gli oracoli e lo favoriva con le opere?(Es 32,11ss). E benché egli intimamente parlasse costantemente con Dio, non di meno era solito parlare col popolo, con umili e preziose domande. Meritatamente fu reputato sopra tutti gli uomini, tanto che essi non potevano guardare la sua faccia e credessero che non si trovasse la sua sepoltura; così egli aveva conquistato le menti di tutti gli uomini, che l'amarono più per la sua mansuetudine, che non l'ammirarono per le sue opere grandi!
32. Ma che diremo noi del suo imitatore, il santo David, eletto dal numero di tutti a governare il popolo: quanto egli fu benevolo e benigno, umile di spirito, diligente di cuore, affabile nel parlare? Prima che fu divenuto re, si offriva per tutti; dopo esser stato fatto re pareggiava la sua milizia con tutti, prendeva la sua parte della fatica, forte nel guerreggiare, mansueto nel comandare, paziente negli oltraggi, più pronto a sopportare che a render ingiurie perciò era tanto grato a tutti che egli ancora giovane fu contro la sua voglia chiesto per diventare re, e pur resistendo fu forzato; poi diventato vecchio fu pregato che non volesse trovarsi presente in guerra, preferendo essi mal capitare per lui piuttosto che solo lui per tutti.(1 Sam10,12ss)
33. Con tanti giocondi uffici si era obbligata la moltitudine(2Sam 2,2ss). Primariamente per le discordie dei popoli preferì di star in esilio in Ebron piuttosto che regnare a Gerusalemme. Poi avendo egli amato così tanto la virtù del suo nemico, ritenendo di dover osservare la giustizia, allo stesso modo con quelli che avevano preso le armi contro di lui come coi suoi. Ammirò infine Abner fortissimo combattente, capitano della parte avversa, e venendo a chiedergli pace, invece di dispregiarlo lo onorò; e sapendo, ch'egli era stato ucciso con degli agguati, se ne dolse e pianse: gli fece esequie e con la sua presenza le ingrandì; vendicatosi della morte fece fede di quel che aveva nell'animo; ciò che egli lasciò al figlio tra le ragioni dell'eredità fu di non lasciar passare senza vendetta la morte dell'innocente più che dolesi della sua.
34. Non fu poco questo in un re, che in lui ci fossero le forze dell'umiltà così che egli si rendesse simile con i più infimi, che non ricercasse cibo con il pericolo per altri, ricusasse il bere; confessasse il peccato, offrisse se stesso alla morte per il popolo per far venire sopra di se il castigo di Dio, offrendosi al flagello dell'angelo di Dio dicendo: Ecco io son quegli che ho peccato, io pastore ho fatto il male; e questo gregge che ha fatto? La tua mano scorra sopra di me (Ibid 24,17).
35.Ma che posso dire di più; che mentre questi pensavano di ingannarlo, non apriva la bocca, e come se egli non avesse udito, riteneva di non dover dire nulla.; non rispondeva alle villanie: quando fu degradato dal suo grado pregava: quando era maledetto, benediva, andando nella semplicità e fuggendo l'arroganza dei superbi, seguendo i non nocevoli: mescolava la cenere coi suoi cibi, quando piangeva i suoi peccati colle lacrime stemperava il suo vino. Fu così da tutto il popolo considerato meritevole che vennero a lui tutti quelli della tribù del fratello dicendo: anche noi siamo tua carne e tue ossa: sia ieri che l'altro ieri quando Saul regnava sopra di noi, tu eri quello che guidavi e accompagnavi, fratello. Ed il Signore ha detto: tu pascerai il mio popolo (2Sam 51ss). E che dirò io più di lui, poiché Dio disse: (Sal88,21) io ho trovato David mio servo secondo il mio cuore? Perché chi come questi camminò nella santità del cuore e nella giustizia in tal modo che egli adempisse la volontà di Dio? Per amor del quale fu perdonato ai suoi posteri, quando essi errarono; e fu riservata la prerogativa agli eredi.
36. Chi dunque non l'avrebbe amato, vedendolo così affabile con gli amici; perché amandoli tanto sinceramente poteva anche giudicare di essere parimenti amato da loro? Finalmente i padri lo preponevano ai figli e i figli ai padri; essendo gravemente sdegnato Saul volle con un'asta percuotere Giona suo figlio giudicando che ci fosse in lui più amicizia per David che pietà per l'autorità paterna.(1Re 11,12-13)
37. Perciò molto può incitare all'amor comune, se qualcuno scambievolmente vuol bene, e molto non amar punto meno chi ama lui: lo è chiaro in molti esempi di amicizia. Perché qual cosa è più popolare che la grazia? Che abbiamo di più naturale che amar chi ci ama? Che cosa è più invecchiata e impressa nelle azioni umane, che indurirsi nell'animo di voler bene a quello dal quale tu desideri di esser amati? Con merito dice il Savio: spendi i denari per il parente e per l'amico. Ed altrove: non mi vergognerò salutar l'amico ne mi nasconderò dalla sua faccia.(Sir 29,13ss). Il parlare dell'Ecclesiastico faccia fede che la medicina della vita e dell'immortalità sta nell'amico! E nessuno dubiti che l'aiuto non sia nella carità dicendo l'Apostolo: Ella sopporta tutte le cose, tutte le crede, di tutte ha speranza, tutto sopporta, mai cade la carità (1Cor 13,7ss).
38. Perciò non cadde mai David, perché fu caro a tutti, e volle piuttosto esser amato da tutti i suoi sudditi che temuto. Perché il timore prende bensì la guardia e la difesa per qualche tempo: ma non la sa mantenere lungamente. Pertanto donde si parte il timore, cresce l'audacia, perché la fede non è dal timore sforzata, ma donata dall'affezione.
39. Adunque la carità è la prima, che ne loda. Pertanto è bene che si sappia di esser amato da molti. Da qui nasce la fede, che molti essendo ancora lontani dalla fede non dubitano fidarsi di te, vedendo che tu sei molto grato. Similmente mediante la fede si giunge alla carità: chi avrà osservato la fede di uno o due farà come se penetrasse negli animi di tutti, e acquietasse la grazia universale.
CAPITOLO VIII
40. Queste due cose dunque possono assai acquistare lode, cioè la carità e la fede, e questa terza cosa, cioè, se la maggior parte giudicherà che in te sia degna di ammirazione, e perfino d'averti con ragione ad onorare.
41. E perché l'uso del consigliare concilia molto gli uomini, perciò la prudenza, e la giustizia si desiderano per ciascuno, e si aspettano da molti, così che si presti fede a quello, nel quale si ritrovano queste cose, che egli possa consigliar utilmente e fedelmente a chi lo domanda. Perché chi si rimetterebbe in quello che non pensi, che sappia molto più di lui che domanda consiglio? È dunque di necessità che sia più eccellente colui al quale è chiesto consiglio, che quel che lo domanda. Perché a qual proposito tu domanderesti consiglio a quello che tu non pensi ci sia cosa migliore che in te?
42. Che se tu trovi uno che sia eccellente di vivacità d'ingegno, di vigore di mente, e di reputazione, ed si aggiunga a quello, che a lui sia per l'esempio e per l'esperienza più pronto, sciolga i pericoli presenti, veda prima il futuro, ti porga aiuto e rimedio a tempo dovuto, sia pronto e preparato non solamente a dar consiglio, ma anche aiuto: a quello si presta fede, così che quel che chiede consiglio dica: se egli mi consiglierà male lo sopporterò per lui.
43. In un uomo dunque così fatto, che sia giusto, come dicemmo sopra, e prudente rimettiamo la nostra salute ed onore. Perché la giustizia fa si che non ci sia paura di affidarsi a lui, e la prudenza ancora fa, che non vi sia sospetto alcuno, che lui possa sbagliare; non di meno noi ci fidiamo più di un uomo giusto, che di un prudente per parlare secondo la opinione comune. Che nella definizione dei saggi dove si trova una virtù concorrono tutte le altre insieme, ne può senza la prudenza star la giustizia: ciò che troviamo ancora nei nostri; perciò David dice: il giusto ha misericordia e presto (Sal 36,11). Quel che presta il giusto, ce lo dichiara in un altro luogo: l'uomo grazioso ha misericordia e presta disporrà il suo parlare nel giudizio (Sal 111,5)
44. E quel nobile giudizio di Salomone non fu egli pieno di sapienza, e di giustizia? Consideriamo dunque, se egli è così. Due donne, dice, stettero alla presenza di Salomone e una di loro disse: (cfr 1Re 3,16ss) Signore ascoltami: abitando quella donna ed io in una medesima camera, dopo tre giorni che ebbi partorito, lei partorì: e stavamo insieme in sala; con noi non c'era nessun altro, donna alcuna, se non noi sole, ed il figliolo di costei morì questa notte; perché ella gli si addormentò addosso; e levatasi di notte mi levò il mio figlio dal lato e se lo mise accanto a se, e pose il suo figliolo morto accanto a me. Io mi levai stamattina per allattarlo e lo trovai morto e lo considerai a buon'ora e lui non era mio figlio. Rispose l'altra: la cosa non sta così; ma questi che vive è figlio mio ed il tuo è quello che è morto.
45. E questa era la lite, che ciascuna s'attribuiva per figlio quello che era vivo, ed ambedue negavano che il morto fosse il suo. Allora il re comandò che si portasse un coltello e che il piccolo bambino si dividesse e che se ne desse una parte a ciascuna: mezzo all'uno, mezzo all'altra. Gridò la donna, che era mossa da vera affezione: signore di grazia non lo fate dividere, si dia, piuttosto a costei, e viva, e non si ammazzi; ma l'altra rispose: né mio né suo ha da essere il fanciullo, dividetelo pure. E il re ordinò che fosse dato a quella donna che aveva detto di non ammazzarlo; perché la sua interiorità, disse sopra suo figlio si commosse.
46. Però meritatamente fu reputato che in lui fosse l'intelletto divino, rivelandogli gli ascosi segreti divini. Perché qual cosa è più profonda che la testimonianza delle viscere interiori, nelle quali scese l'intelletto del Savio come un certo arbitro della pietà, e cavò quasi una certa voce del genital corpo, mediante la quale si fece palese l'affezione materna, che elesse piuttosto che il suo figliol vivesse con una estranea, che essere ucciso alla sua presenza?
47. Fu dunque gran saviezza distinguere le segrete coscienze, trarre la verità dalle cose occulte, e così con l'armatura dello spirito, come con un certo coltello, penetrare non solo le viscere del corpo, ma anche quelle dell'anima, e della mente. Fu giustizia ancora, che quella che aveva morto il figlio suo, non togliesse l'altrui, ma la propria madre ricevesse il suo. Finalmente ancor questo narra la Scrittura: tutto Israele, dice, sentì questo giudizio, che dette il re, e temettero la sua faccia, conoscendo che l'intelletto di Dio in lui risplendeva tanto; che lui facesse giustizia (1Re 3,28). Finalmente Salomone stesso chiese così la sapienza, che egli ottenne che gli fosse concesso un cuor prudente ad ascoltare, e giudicar con giustizia.
CAPITOLO IX
48. Dunque secondo la Sacra scrittura, che è più antica, è altresì manifesto, che la sapienza non può stare senza giustizia, perché là dove è una delle virtù, lì è l'altra. Daniele ancora quanto sapientemente trovò egli con un'alta domanda la bugia della fraudolente accusa, che la risposta dei calunniatori tra se medesimi discordassero? Fu dunque gran prudenza, chi aveva errato nella testimonianza della lor propria voce. Fu ancora giustizia castigar chi aveva commesso il delitto, e salvar chi non era nocevole.
49.È dunque un medesimo modo della sapienza, della giustizia, ma secondo l'usanza del volgo si distingue un certa forma delle virtù; che la temperanza sia nel disprezzare i piaceri, la fortezza si consideri nelle fatiche e nei pericoli; la prudenza nel metter da parte le cose buone, saper distinguere le comodità e le avversità; la giustizia quella che mantiene le ragioni altrui, si attribuisce il proprio e conserva a ciascuno ciò che è suo. Abbiamo fatto dunque per amor della comune opinione questa divisione in quattro parti, che ritirandoci da quella sottile disputa della Filosofia e della sapienza, che si ricava come da una certa entrata per limare la Verità, continuiamo l'usanza volgare, e il senso del popolo. Dunque osservata questa divisione, ritorniamo al nostro proposito.
CAPITOLO X
50. Noi affidiamo i nostri affari più volentieri ad uno che sia sommamente prudente; e a lui prontamente che ad altri domandiamo consiglio. Nondimeno è molto meglio un fedele consiglio d'un uomo giusto, e molte volte prevale l'ingegno di uno assai sapiente. Dunque: sono più utili le ferite degli amici, che i baci degli altri (Pro 27,6). Finalmente perché l'atto del giusto è il giudicare, e l'atto del savio di discutere con ragioni: in quello è il giudizio della disputa, in questo l'astuzia dell'invenzione.
51. Se tu congiungi una cosa con l'altra, ne usciranno molti lodevoli consigli, che sono considerati da tutti con meraviglia della sapienza ed amor della giustizia, tanto che ciascuna cerchi di udire la sapienza di quell'uomo, nel quale siano insieme queste cose, non altrimenti che ceravano tutti i Re della terra di vedere la faccia di Salomone, ed udire la sua sapienza, tanto che la Regina di Saba venne a lui per provarlo e metterlo alla prova circa difficili questioni. Dice: E venne e gli disse tutte le cose che ella aveva nel cuore, e udì tutta la sapienza di Salomone, e non ne perse parola (1 Re 10,2-3)
52. Chi sia questa che intendesse tutte le cose, e nessuna cosa si trovasse che davvero Salomone non gli fosse rivelata e manifestata, lo puoi capire dalle cose che tu la senti parlare. Dice: Sono vere le cose che io ho udito nel mio paese sulle tue parole e sulla tua prudenza; e mai l'ho credute da quelli che me le hanno raccontate fintantoché io non sono venuta di persona e i miei occhi le hanno vedute; ed ora conosco che non se ne dicono neppure la metà. Tu hai molte felicità oltre a quelle, che io non ne abbia udite nei miei paesi. Felici certo sono le tue donne, felici i tuoi servi che ti servono, che odono la tua prudenza. Riguardo al convito del vero Salomone, e con grande sapienza contempla le cose, che prima in tal convito si sono poste, e considera in che paese l'unione delle nazioni abbia udita la fama della vera sapienza e della giustizia, e con quali occhi lo abbia veduto, con quelli certamente che contemplano le cose che non si vedono. Perché: le cose che si vedono sono eterne, quelle che non si vedono, eterne (2Cor 4,14).
53. Quali sono le donne felici, se non quelle, delle quali è detto che molte odono e partoriscono il Verbo di Dio?(Lc 2,28). E in un altro luogo: Chiunque osserverà la Parola di Dio, questi è mio fratello, sorella e madre (Mt 12,50). Chi sono ancora i felici servi che amministrano per Lui, se non Paolo che diceva: Io sto fino a questo giorno protestando al maggiore e al minore (At 26,22), e Simeone (Lc 1,25) che aspettava nel Tempio per vedere la consolazione di Israele? In che modo dunque chiederebbe egli di esser lasciato andare, se non perché servendo il Signore non aveva facoltà di andarsene, se prima non acquistava la volontà del Signore? E noi abbiamo proposto Salomone come esempio, la cui sapienza chiunque cercava a gara di capire.
54. Né a Giuseppe ancora quando egli era in carcere, mancava chi venisse a consigliarsi con lui circa le cose dubbiose. Il suo consiglio universalmente giovò tanto all'Egitto, che esso non sentì la sterilità di sette anni, e dal digiuno dell'orrenda fame sollevò gli altri popoli.
55. Daniele ancora del numero delle prigioni, messo nel consiglio regale, con i suoi consigli chiarì le cose presenti, e predisse le future. Perciò avendo egli mostrato mediante le cose da lui frequentemente interpretate di prevedere la verità, gli era da ciascuno prestata fede.
CAPITOLO XI
56. Ma ancora il terzo luogo di quelli che devono essere riguardati con meraviglia, pare assai dichiarato con l'esempio di Giuseppe, di Salomone e di Daniele. Ma che dirò io di Mosè, i cui consigli erano ogni giorno aspettati da tutto Israele, la cui vita rendeva testimonianza della sua prudenza e accresceva la sua ammirazione? Chi sarebbe quello che non si rimetteva al consiglio di Mosè, quando i più vecchi riserbavano per lui qualche cosa che loro giudicassero esser sopra il loro intelletto e la loro virtù?
57. Chi schiverebbe il consiglio di Daniele, del quale lo stesso Dio disse: Chi è più saggio di Daniele? (Ez 28,3). O in che modo potrebbero mai dubitare gli uomini delle menti di quelli ai quali Dio conferiva tanta grazia? Con il consiglio di Mosè dal cielo pioveva cibo, dalla pietra usciva acqua.
58. Quanto fu puro l'animo di Daniele, che temperò i barbari costumi, mitigò i leoni? Quanta temperanza ci fu in lui? Quanta continenza sia dell'anima sia del corpo? Pertanto non a torto fu da tutti ammirato, poiché egli (che con grande stupore sono soliti gli uomini riguardare) fortificato da amicizie regali non cercava tesori, né stimava gli onori che gli erano fatti, più che la fede. Ma lui preferiva per la legge del Signore mettersi in pericolo, che lasciarsi piegare dai favori mondani.
59. Io parlerò della castità, della giustizia di san Giuseppe, il quale io avevo quasi lasciato indietro, l'una delle quali ebbe in orrore gli allettamenti della padrona, rifiutò i premi propostili; l'altra spregiò la morte, cacciò la paura e desiderò piuttosto la prigione? Chi non giudicherebbe costui essere al tutto proposito a consigliar una ragion privata; il cui animo arrendevole, e la mente fertile cambiò in abbondanza la fertilità dei tempi con la copia dei consigli e del cuore.
CAPITOLO XII
60. Abbiamo dunque veduto, che nel consigliare fa assai la bontà della vita, la prerogativa delle virtù, l'uso della benevolenza e la grazia della facilità. Perché chi cercherebbe nel fango di una fonte? Chi cercherebbe di bere un'acqua torbida? Chi perciò giudicherebbe di prendere qualcosa là, dove c'è la lussuria, l'intemperanza, la confusione dei vizi? Chi non dispregerebbe la sozzura dei costumi? Chi riterrebbe utile per l'altro chi vede essere dissoluto nella sua vita? Chi non fuggirebbe un uomo maligno, spergiuro, e sempre pronto a offendere? Chi non schiverebbe in ogni modo questo tale?
61. Chi andrà da quello che benché sia prudente e atto a consigliare, sia difficile da trovare e nel quale ci sia mancamento come una sorgente chiusa? Perché a qual cosa giova la prudenza, se tu non vuoi dar consigli? Se tu neghi solitamente io consigliare hai serrato la sorgente così che non servirà né ha te né ad altri.
62. E quadra bene anche in colui che avendo la prudenza la macchia con la lordura dei vizi per contaminare l'uscita dell'acqua. La vita manifesta gli animi che tralignano. E come puoi tu pensare che ti trapassi di consigli colui che vedi esserti inferiore nei costumi? Quello in cui mi propongo di fidarmi mi deve essere superiore. O penserò mai io che mi può consigliare colui chi non sa badare a se stesso e ritengo che potrà aiutarmi nei miei compiti quando trascura i suoi: il cui animo è occupato dai piaceri legato alla libidine soggiogato dall'avarizia perturbato dalla cupidigia e mosso dalla paura? In che modo egli potrà avere posto per qualche consiglio mancando per la quiete?
63. A me pare di essere ammirato quello che da consigli, che il Signore quando era propizio, dette ai padri e lo levò da loro quando si sdegno a causa loro. Questo deve imitare quello che può dal consiglio, e conservare la prudenza estranea ai vizi: poiché nessuna cosa macchiata può congiungere quella.
CAPITOLO XIII
64. Chi dunque mostrerà con la faccia tanta bellezza e guasterà la grazia della forma superiore con le parti posteriori di bestia e con gli unghioni di fiera; essendo la forma delle virtù, tanto meravigliosa ed eccellente, e particolarmente la bellezza della sapienza secondo che la Sacra Scrittura ne manifesta? Perciò questa è più splendente che il sole e comparata con la luce si trova molto più pura che tutta la disposizione delle stelle. Perché la notte caccia questa luce, ma la malizia non vince la sapienza.
65. Abbiamo detto della sua bellezza, e con la testimonianza della Scrittura l'abbiamo provato, resta, che noi con l'autorità della medesima scrittura insegniamo, che questa non ha famigliarità alcuna con i vizi ma il suo congiungimento con le altre virtù è inseparabile, il cui spirito è erudito, senza macchia, certo santo, amatore del bene, potente che in ogni cosa vieti il fare bene, benigno stabile, sicuro, che ha tutte le virtù, e vede da lontano tutte le cose. E conseguentemente insegna la sobrietà, la giustizia e la virtù.
CAPITOLO XIV
66. Tutte le cose opera la prudenza, ed è in accordo con tutti i beni. Perché come può dare consiglio utile, se questa non ha la giustizia: se ella non ha la costanza, né teme la morte, non potrà essere libera né dagli spaventi né da alcuna paura, né potrà pensare di non essere piegata da alcuna adulazione: non schivi l'esilio, sappia che in tutte le parti del mondo è la patria del saggio: non tema la povertà; che sappia che al sapiente non manca cosa alcuna; a cui tutto il mondo è di ricchezze abbandonevole? Pechè che cosa è più eccellente di quell'uomo, che non sa essere mosso per l'oro, che reputa vili le ricchezze, e come una roccia pone sotto di se la cupidigia degli uomini? Chi osserverà ciò, sarà giudicato dagli uomini più di un uomo. «Chi è questi» - dice - «e lo loderemo§? Perché egli ha fatto nella sua vita cose meravigliose.» (Eccli. 31,9). Perché in qual modo non guarderemo con meraviglia quell'uomo che dispregia le ricchezze, le quali in molti hanno preposto alla loro vita?
67. A tutti dunque si deve la serietà della moderazione, la reputazione della continenza, e massimamente chi è posto in grado, poiché un uomo così degno non sia posseduto dalle sue ricchezze, e serva soldi colui che è preposto agli uomini liberi: a quello pio conviene molto essere con l'animo distaccato dalle ricchezze, e ricerchi di compiacere l'amico. Perché l'umiltà accresce la grazia. Questa è piena di lodi, e degna dei primi uomini; non avere desideri del vile guadagno comune ai trafficoni di Tiro, e coi mercanti di Galazia, ne costituire ogni bene nei soldi, e tener conto per iscritto dei quotidiani guadagni come si fa nelle arti meccaniche.
CAPITOLO XV
68. Se va lodato chi ha un animo staccato da queste voglie,quanto sarà staccato da queste voglie, quanto sarà più pregevole se uno si guadagna l'amore della moltitudine con una liberalità che non eccede con gli importuni, e non è ristretta con i bisognosi?
69. Vi sono però diversi generi di liberalità, non solo quello di disporre e distribuire con quotidiana spesa del cibo che serva a sostenere la vita ai bisognosi:ma anche quello di provvedere e soccorrere coloro che hanno vergogna di mostrare in pubblico la loro miseria, purché non si esaurisca l'alimento comune dei poveri. Poiché io parlo di chi presiede a qualche ufficio, o come sacerdote, o elemosiniere, purché indichi al Vescovo tali bisogni e non respinga chi si trova in qualche necessità, o chi, decaduto dalle richezze, è ridotto alla fame; e questo tanto più se è costretto a guadagnarsi giornalmente il pane non per aver scialacquato il patrimonio, ma per qualche furto o perdita.
70. È liberalità somma il redimere i prigionieri e il sottrarli dalle mani del nemico, strappare gli uomini alla morte e principalmente le donne dal disonore, ridare i figli ai genitori, i genitori ai figli, i cittadini alla patria. La triste esperienza fatta nella devastazione dell'Illiria e della Tracia ce lo insegna anche troppo! Quanti prigionieri non erano messi in vendita per io mondo intero che a metterli insieme una provincia non basterebbe a contenerli? Vi furono tuttavia perfino taluni che volevano rifare i prigionieri quelli che le Chiese avevano riscattato; più molesti in questo della prigionia stessa perché mostravano di veder male l'altrui compassione.
71. Si fanno atti di speciale liberalità, se si riscattano prigionieri, massimamente da un nemico barbaro, il quale non abbia altro motivo di umanità, per essere misericordioso, di quello dell'avarizia per il prezzo del riscatto; se ci si addossa un debito altrui, quando il debitore non possa pagare e sia costretto al pagamento della legge, ma impossibilitato dalla povertà; se si nutriscono i bambini e si difendano i pupilli.
72.Vi è pure chi cerca di accasare le donzelle orfane per tutelarne l'onore; non solo spendendo di zelo, ma anche di borsa. Inoltre vi è pure la liberalità di cui parla l'Apostolo: «Se qualcuno tra i fedeli ha delle vedove, le soccorra e non ne sia aggravata la chiesa, perché questa possa bastare a quelle che veramente sono vedove» (I Tim.,V,15)
73. Tale liberalità è inutile, ma non può essere comune; perché i più, anche buonissima gente, hanno entrate scarse, che bastano appena al loro uso, ma non da permettere di alleggerire l'altrui povertà; tuttavia si presenta un diverso genere di beneficenza col quale aiutare gli inferiori. Duplice infatti è la liberalità; una consiste nel soccorso materiale, cioè del denaro, l'altra nel prestare servizi, ed è spesso migliore e più signorile.
74. Abramo recuperò il nipote, preso dai nemici vincitori, con più gloria che se l'avesse riscattato col denaro (Gen., XIV.16).Giuseppe con i suoi provvidi consigli fu più utile al Faraone che se gli avesse dato del denaro. Non fu infatti il denaro a procacciare l'abbondanza ad una sola città; ma la previdenza per cinque anni tenne lontana la fame da tutto l'Egitto(Gen., XLI, 33 e ss)
75. Il denaro facilmente si consuma, ma i consigli non possono esaurirsi; anzi questi si moltiplicano; mentre al contrario il denaro diminuisce, presto viene meno e lascia impotente la stessa liberalità, cosicché tanto meno ne aiuti quanto sono più numerosi quelli ai quali vorresti donare, e spesso manca a te ciò che hai creduto bene dare agli altri. Non è però così del consigliare e del prestare servizi; poiché quanto più si estendono, tanto più sovrabbondano e ritornano più ricchi alla loro fonte. La ricchezza della prudenza ritorna in sé aumentata; e quanto più s'è sparsa, tanto più sa fare con svelta attenzione ciò che rimane.
CAPITOLO XVI
76. È chiaro quindi che vi deve essere la dovuta misura nella liberalità, perché non diventi una generosità senza senso. I sacerdoti massimamente usino moderazione, per fare distribuzioni secondo giustizia, non per vana ostentazione. In nessun luogo, come nella Chiesa, c'è tanta mania di chiedere. Si presentano uomini validi, uomini che non hanno altro motivo di girellare e pretendono vuotare la cassa dei soccorsi per i poveri e consumare ogni spesa:non contenti di poco, insistono per avere di più; con imbroglio di misere vesti si suffragano la loro domanda, e contrastano con la simulazione dei natali, per aumentare dei guadagni. Se si presta facilmente loro fede, subito si esauriscono le riserve destinate per il pane dei poveri. Vi sia misura nel dare, cosicché non si ritirino a mani vuote, e il sostentamento, ch'è la vita dei poveri, non vada a finire preda dei fraudolenti. Dunque la misura sia siffatta da non trascurare il sentimento d'umanità, né da mancare alla necessità.
77. Molti fingono debiti. Si indaghi la verità. Si lamentano d'essere stati spogliati dai ladri; in tal caso o il danno autentichi il vero, oppure il riconoscimento della persona, perché più volentieri si venga in aiuto. A quelli che la Chiesa ha rimosso da sé(per punizione e quindi per penitenza)si faccia la distribuzione soltanto nel caso in cui non abbiano da mangiare. Così, chi si tiene nella giusta misura, non è avaro con nessuno ed è generoso con tutti; poiché non si deve prestare l'orecchio solo per ascoltare le preghiere di chi domanda, ma anche avere occhio per considerare le loro necessità. Un buon elemosiniere considera nel povero nel povero la debolezza più che la voce. Avviene che l'importunità di chi più alza la voce riesca a strapparci anche di più, ma non sempre ci si presti alla sfrontatezze. Guarda quegli che non osa guardarti, e ricerca chi ha vergogna di farsi vedere. Ti venga anche alla memoria chi è chiuso nel carcere, e la voce dell'ammalato che non può risuonare al tuo orecchio, risuoni nel tuo cuore.
78. Quanto più il popolo ti vedrà attivo, tanto più ti amerà. Conosco molti sacerdoti che, quanto più hanno dato, tanto più hanno abbondato: poiché, chiunque vede un buon lavoratore, a lui affida ciò che per ufficio distribuisce, sicuro che l'atto suo misericordioso arrivi al povero. Se invece vedrà un elemosiniere senza discrezione, od ad un altro troppo stretto, li disdegnerà: perché non deve dissiparsi in erogazioni superflue il frutto dell'altrui lavoro, ma neppure nasconderlo nei borsellini. Ma come la liberalità deve avere la misura, così, ci pare, che più spesso abbia bisogno di sprone. La misura giusta deve consistere nel poter fare ogni giorno la beneficenza che fai, nel non sottrarre alla necessità quello asseconderebbe la prodigalità: lo sprone, perché il denaro è meglio occupato per il cibo del povero che rimane nella borse del ricco. Guarda di non chiudere nella tua cassa quello che rappresenta la salvezza dei bisognosi e di non tener chiusa, come in sepolcro, la vita dei poveri.
79. Giuseppe avrebbe potuto donare tutte le ricchezze egiziane e versare i tesori del re; tuttavia non volle parere prodigo dell'altrui; e preferì dare a prezzo il frumento agli affamati, anziché donarlo; se infatti a pochi lo avesse donato, moltissimi ne sarebbero rimasti senza. Preferì quella liberalità che permetteva che tutti ne avessero in abbondanza. Aprì i granai, perché tutti comprassero il frumento che li soccorresse(Gen., XLI, 56,57); per evitare che col riceverlo gratuitamente lasciassero il lavoro dei campi:infatti chi si serve dell'altrui il suo lo trascura.
80. Prima di tutto ammasso il denaro, poi tutti gli attrezzi, infine acquisto per il re i diritti delle terre, non per spogliare tutti della proprietà, ma per sostenerli; per stabilire un pubblico tributo, onde possedessero con più sicurezza le proprie cose. E questo fu così gradito a coloro, ai quali aveva preso le terre, da ritenere di non aver ceduto il proprio diritto, ma di aver riscattata la propria salvezza. Così infatti dissero: «tu ci hai salvato, ed abbiamo trovato grazia al cospetto del nostro Signore» (Gen.,XLVII, 14 e ss.,25). Nulla della proprietà avevano perduto coloro che ne avevano il diritto: come niente d'utile aveva perduto chi ne aveva acquistato la perpetuità.
81. Uomo veramente grande, che non penso di guadagnarsi una gloria temporanea per eccesiva liberalità, ma piuttosto volle un servizio continuo di provvidenza! Dispose infatti che i popoli traessero vantaggio dai propri tributi e non avessero nel tempo della necessità di desiderare il soccorso altrui. Fu assai meglio dare parte dei frutti che perdere tutto il diritto. Stabilì la quinta parte da dare, mostrando assai perspicacia nel provvedere e molta liberalità nel fissare il tributo. Così l'Egitto nell'avvenire non soffrì più simile carestia.
82. Con quale lucidità seppe prevedere il futuro! Con che acume, come interprete, seppe svelare il sogno del re! Ecco il sogno: sette vacche venivano su dal fiume, di bell'aspetto e grasse, e pascolavano lungo la riva. Poi altre vacche, brutte e magre, dopo le prime risalivano dal fiume e pascolavano vicino alle grasse lungo i rialzi delle rive: parve al re che le vacche magre e stecchite divorassero quelle che si distinguevano per la loro formosità e grazia. Ecco il secondo sogno: sette spighe colme, scelte, ben granite s'elevavano da terra, e dietro sette spighe mingherline, sgualcite dai venti, e rinsecchite tentavano di soppiantarle; e gli parve che le spighe vuote e stente divorassero le piene e rigogliose.
83. Tale sogno fu interpretato da Giuseppe così: le sette vacche rappresenterebbero sette anni, così pure le sette spighe, deducendo il tempo del parto e della mèsse. Il parto infatti della vacca rappresenta un anno e la mèsse un anno completo. Il risalire dal fiume si spiega col fatto che i giorni, gli anni, e il tempo scorrono come la corrente del fiume e presto dileguano. I primi sette anni pertanto significano sette anni di fecondità e fertilità della terra; gli altri sette posteriori, sette anni sterili e infecondi, la sterilità dei quali consumerà l'abbondanza degli antecedenti. In conseguenza avvertì che si prevedesse che, dagli anni dell'abbondanza, si mettesse insieme una riserva di grano, colla quale si poteva affrontare le necessità per la futura carestia.
84. Che dovrò ammirare per primo? La penetrazione della mente, con cui riuscì ad entrare nel dominio della verità; oppure il saggio consiglio con cui provvide alle gravi e lunghe necessità; o la vigilanza e la giustizia; con la prima delle quali, per l'impiego così oneroso a lui dato, raccolse tante vettovaglie, e con la seconda seppe mantenersi imparziale con lui? Non farò parola della sua magnanimità, giacché, venduto come schiavo dai fratelli, non solo non ricambiò l'offesa, ma risparmiò loro la fame; e neppure della dolcezza che con pia frode, simulando un furto. Di questo l'accusò per tenerlo come ostaggio alla sua benevolenza.(Gen.,XLIV,2 e ss.):
85. Giustamente il padre gli dice: Giuseppe, figlio che cresce, figlio che cresce, il figlio mio più giovane che non ha rivali .il mio Dio ti ha aiutato, e ti ha benedetto con la benedizione del cielo, dell'alto, con la benedizione della terra, della terra che ha tutto, con la benedizione del padre e della madre. Prevalse sopra le benedizioni dei monti stabili e sopra il desiderio dei colli eterni.(Gen., XLIX,22 e ss). E nel Deuteronomio: «Colui che apparve vivo nel roveto venga sul capo di Giuseppe e sopra la cima della sua testa;onorifico tra i fratelli; e il suo decoro come quello del primo nato del toro, e corni di rinoceronte i suoi corni. Con essi le miriadi d'Efraim, a lui le migliaia di Manasse» (Deus., XXXIII, 16 e ss.).
CAPITOLO XVII
86. Chi deve dare consigli ad altri deve essere tale da poter presentare se stesso come modello per l'esempio delle buone opere, nella dottrina, nell'integrità di vita, cosicché la sua parola riesca salutare e irreprensibile; il consiglio utile, la vita onesta, il parere decoroso.
87. Paolo che dava consigli alle vergini(I Cor., VII, 25 e ss.); che ammaestrava i sacerdoti(Tim., II; 7) era di tale condotta da poter presentare se stesso a noi come modello da imitare. Sapeva anche umiliarsi, come fece Giuseppe, che nato dalla nobile stirpe dei patriarchi, senza sdegnare un'oscura schiavitù, la rappresentava con umile obbedienza e l'illustrava con le virtù. Seppe umiliarsi, se tollerò il venditore e il compratore chiamandolo Signore. Ascolta come s'umilia: «se il mio signore per me non sa nulla in casa sa e tutto ciò che possiede la messo in mano mia, e nulla alla mia dipendenza fuori di te che sei la sua moglie, come potrei io fare un tal male e peccare contro il mio Dio?» (Gen.,XXXIX, 8 e ss.). Parole piene di umiltà, piene di castità, perché riteneva grave peccato il contaminarsi con vergognosa azione.
88. Ci consiglia, deve essere tale di non avere nulla di torbido, d'ingannevole, di simulato che ne redarguisca la vita e i costumi; nulla di malvagio e malevolo che distorni chi vuole consigli. Alcuni vizi infatti si schivano, altri si disprezzano. Si sfuggono quelli che possono nuocere e che maliziosamente possono insinuarsi a nostro danno; come sarebbe se chi ci consiglia sia di dubbia fede, avido di debaro da lasciarsi corrompere; se uno poi è malvagio è schivato e sfuggito. Chi invece è dedito ai piacere, intemperante, e,se anche alieno da frode, pure è avaro e bramoso di turpe guadagno, questi è disprezzato. Chi fosse dato all'infingardaggine ed alla concordia, quale prova di sollecitudine,quale frutto di lavoro potrebbe mettere fuori; quale cura e premura nutrire nel suo cuore?
89. Pertanto un uomo di ottimo consiglio dice:» Io ho imparato a bastare a me stesso con le cose che mi trovo ad avere» (Filip. IV,11). Sapeva infatti come la cupidigia è la radice di tutti i male, e perciò, contento del suo, non cercava altro.(I Tim., VI, 10). Mi basta, dice, quello che ho; e sia poco, o moltissimo, per me è moltissimo. È bene che aggiunga qualcosa di più chiaro. Ha usato un termine efficace: «mi basta, dice, quello che ho» ; ossia nulla vi manca, nulla v'è di più. Nulla manca, perché niente altro cerco; nulla v'è di più, perché non posseggo solo per me, ma per molti. E questo riguarda il denaro.
90. Del resto può dirsi lo stesso di tutto ciò che aveva; perché non desiderava onore maggiore, ne più copiosi segni di riguardo: non era desideroso di eccessiva gloria, né cercava indebita benevolenza; ma tollerante della fatica e sicuro del merito attendeva con impazienza il termine della battaglia assegnatagli: «So, diceva, anche umiliarmi» (Filip. VI, 12). Non è la sua umiltà da ignorante, ma tale da riconoscersi e misurarsi, e perciò degno di lode. V'è infatti un'umiltà di paura, d'inettitudine e di ignoranza; quindi la Scrittura dice: «E gli umili di spirito salverà» (Ps.,XXIII,19). Perciò assai bene ha detto:» So umiliarmi» ; ossia in qual luogo, in qual misura, per qual fine, in quale ufficio, in quale ministero. Non seppe farlo il Fariseo, e perciò fu reietto, lo seppe il pubblicano e perciò fu giustificato.
91. Paolo sapeva esser ricco, perché era ricco d'anima, quantunque non avesse il tesoro dei ricchi. Sapeva essere ricco, perché di ciò che dava non ricercava il denaro, ma il frutto della grazia. Possiamo anche interpretare così:» la bocca nostra s'è aperta verso voi, o Corinti, e il nostro cuore s'è allargato» (II Cor. VI, 11).
92. Era avvezzo in tutto, ad essere sazio e ad avere fame. Felice lui, che sapeva saziarsi in Cristo. Non si tratta dunque di una sazietà corporale, ma spirituale, la quale è prodotta dalla scienza. Giustamente c'è bisogno di scienza, perché «l'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola di Dio» (Deut.VIII,3). Quindi chi sapeva saziarsi ed aver fame, sapeva andare sempre in cerca di cose nuove, cioè di aver fame di Dio. Sapeva di aver fame sapendo che gli affamati mangeranno (Math., V,6): sapeva e poteva esser ricco, mentre nulla possedendo aveva tutto(II Cor., VI,10).
CAPITOLO XVIII
93. Ecco che la giustizia rende giustamente gloriosi quelli che sono a capo di qualche ufficio; mentre l'ingiustizia li lascia in abbandono e li combatte. Ce ne porge esempio la Scrittura la quale racconta come, avendo il popolo d'Israele alla morte di Salomone pregato il figlio suo Roboamo di sottrarre il loro crollo di dura schiavitù e di mitigare l'asprezza del governo del padre, quegli, disprezzato il consiglio dei vecchi, e messo su dai giovani, abbia risposto che avrebbe aggravato il giogo paterno e cambiato in pene più gravi le pene più lievi(III Reg., XII, 4 e ss.).
94. A tale risposta i popoli esasperati replicarono:» Che abbiamo noi a che fare con David, o quale eredità con i figli di Iesse? Ritorna, o Israele, e ciascuno alle sue tende» (Ib., 16); che costituì non sarà né sovrano, né duce tra noi. Perciò lasciato e abbandonato dal popolo poté avere, per riguardo ai meriti di David, a stento la società di due tribù.
CAPITOLO XIX
95. È chiaro che l'equità rafforza gli imperi, e l'ingiustizia li fa crollare. Come infatti la malvagità potrebbe conservare un regno, se non riesce neanche a reggere una sola famiglia privata? È necessaria quindi una grandissima bontà non solo per reggere il timone di uno stato, ma anche per tutelare privati diritti. La bontà giova moltissimo; essa si studia di circondare tutti con i benefici, di avvincerseli con i servizi, di guadagnarseli con le cortesie.
96. Abbiamo anche detto che a guadagnarsi gli animi giova moltissimo la dolcezza nel parlare. Questa però, secondo il nostro desiderio, ha da essere schietta, misurata, e scevra di adulazione; perché l'adulazione stona col linguaggio semplice e sano; e noi dobbiamo essere per gli altri non solo modello nell'azione ma anche nella parola, nella castità, nella fede. Siamo tali, quali vogliamo essere stimati; e quali sono i sentimenti dentro di noi, tali mettiamoli fuori. Non proferiamo in cuor nostro parole inique che crediamo sepolte nel silenzio, perché nel secreto le ascolta chi ha fatto anche le cose secrete, e conosce i secreti del nostro intimo chi nel nostro intimo ha infuso i sentimenti. Quindi, come se ci trovassimo in presenza del giudice, riteniamo esposto alla luce tutto ciò che facciamo, perché a tutti sia manifesto.
CAPITOLO XX
97. È di grande giovamento, per ognuno l'unirsi ai buoni; e per i giovani è pure utile andare dietro ad uomini illustri e saggi; giacché è saggio chi se la fa con i saggi, e chi invece si attacca agli stolti, stolto si da a dividere. Serve moltissimo, pertanto, sia per l'insegnamento, sia come testimonianza di probità. Infatti i giovani dimostrano d'essere imitatori di quelli a cui si accostano, a s'avvalora la fama che abbiamo ricopiato la condotta di vita proprio da quelli, coi quali hanno avuto il desiderio di stare insieme.
98.Perciò riuscì così grande Giosuè Nave, perché lo stare con Mosè non solo gli servì per ammaestrarsi nella scienza della Legge, ma lo santificò per la grazia(Exod. XXIV, 13). Infatti quando il Signore con la divina presenza rifulse nella sua maesta nella tenda di lui, nella tenda v'era solo Giosuè. Mosè parlava con Dio, e Giosuè ugualmente era avvolto dalla nube sacra; gli anziani ed il popolo stavano al basso; e Giosuè con Mosè saliva per ricevere la Legge(Ex. XXXIII,11). Tutto il popolo era dentro gli accampamenti, Giosuè fuori dagli accampamenti nella tenda della testimonianza. Quando la colonna della nube discendeva e parlava con Mosè, egli assisteva come un fedele ministro, e sebbene giovane non usciva dalla tenda; mentre gli anziani posti a distanza dinanzi ai prodigi divini tremavano.
99. Dapertutto quindi tra le opere mirabili e i misteriosi secreti era inseparabilmente con Mosè; di modo che con Mosè era stato partecipe della vita, divenne erede del potere(Deut.,XXIV, 9). Meritamente diventò uomo tale da fermare il corso dei fiumi,(Iosue, III, 15 e ss) e da dire: Si fermi il sole, e che il sole si fermasse (Iosue, X, 12,13); come se volesse prolungare il giorno per essere spettatore della sua vittoria. Che dire poi se fu solo eletto per introdurre il popolo nella terra promessa? Grande uomo per i miracoli della fede, grande per i trionfi. Le gesta di Mosè furono più gloriose, quelle di Giosuè più felici. L'uno e l'altro sostenuti dalla grazia di Dio, oltrepassarono le possibilità umane(Exod., XVI, 21:l'uno comandò al mare l'altro al cielo.
100. Bella cosa la compagnia dei vecchi con i giovani;gli uni servono di testimonianza; gli altri di conforto: gli uni d'istruzione,gli altri di diletto. Tralascio di dire come il giovane Loth non si staccava da Abramo, anche quando si metteva in viaggio; perché non si creda che questo avvenisse per ragioni di parentela e più per necessità che per volontà. Che diremo di Elia e di Eliseo? Quantunque la Scrittura non faccia espressa menzione della gioventù di Eliseo, tuttavia ci accorgiamo e deduciamo che fosse assai giovane(III Reg., XIX, 21). Negli Atti degli Apostoli vediamo che Barnaba prese con se Marco, Paolo, Sila;Timoteo e Tito (Atti, XII, 25 et altri).
101. Nei precedenti casi vediamo come divise le mansioni, cosicché gli anziani tenevano il primo posto per consigliare, e i giovani nell'agire. Spesso ancora, pari in virtù, differenti per età, si compiacevano di stare insieme, come Pietro e Giovanni.Leggiamo quindi nel Vangelo, e proprio in bocca sua, che Giovanni(XIII, 23,e XXI,20)fosse giovane, sebbene per meriti e sapienza non secondo ad alcuno degli anziani, giacché in lui v'era la vecchiaia della condotta e sapienza da attempato. La vita immacolata è lo stipendio di una buona vecchiaia.
CAPITOLO XXI
102. Ad aumentarti la buona stima ti gioverà, se strappi un povero dalle mani di un potente, se liberi dalla morte un condannato, quando si possa fare senza pubblici inconvenienti, affinché non appaia più farlo per boria che per misericordia e non aggiunga ferite più gravi, mentre desideriamo medicarne di più leggeri. Se poi libererai un oppresso dal peso di un potente e gravato più che dal debito della sua scelleratezza da trame di partito, si allargherà la testimonianza della buona fama a tuo riguardo.
103. L'ospitalità mette in buona vista molti. È una bella e palese mostra di umanità che un pellegrino non manchi di ospizio, che sia cortesemente accolto, e che sia aperta la porta a chi viene. È ritenuta in tutto il mondo come cosa decorosa l'accogliere con onore i viandanti, che alla mensa non manchi il dono dell'ospitalità, il prevenire con premure cortesi e signorili e il cercafre di provvedere la venuta di ospiti.
104. Tale lode è stata data ad Abramo, il quale dinanzi alla porta vigilava perché un pellegrino non passasse oltre, e con cura montava per così dire la guardia per andare incontro, prevenire e pregare perché il forestiero non passasse oltre, dicendo:» Signore, se ho trovata grazia dinanzi a te, non lasciare il tu servo» (Gen., XVIII, I e ss.). Quindi quale mercede della sua ospitalità ebbe il frutto della posterità.
105. Il suo nipote, Loth, stretto a lui, non solo per sangue, ma anche per virtù, per l'amore che aveva per la sua ospitalità stornò da se e dai suoi il castigo inflitto a Sodoma.
106. Conviene dunque essere ospitali, benigni, giusti, senza cupidigia delle corse altrui, anzi pronti piuttosto a fare qualche concessione su i nostri diritti, se si fosse provocati, anziché calpestare i diritti degli altri; fuggire le liti, aborrire dalle rise, salvare la concordia e il dono della tranquillità. In verità che l'uomo dabbene ceda un poco su i suoi diritti non solo è segno di liberalità, ma spesso è anche utile. Non è un guadagno disprezzabile prima di tutto il non spendere per liti; in secondo luogo si aggiunge l'aumento dell'amicizia, da cui nascono moltissimi vantaggi, i quali, se per un dato tempo si trascurano, potranno in seguito dare i loro frutti.
107. Con tutti nei doveri dell'ospitalità si dovrà essere benevoli; però ai giusti si deve fare maggiore onore:» Chiunque infatti accoglierà un giusto come giusto avrà la ricompensa del giusto» (Math.X, 41), come ha detto il Signore. La grazia dell'ospitalità ha tanto valore dinnanzi a Dio che non rimarrà senza premio neanche un bicchiere di acqua fresca. Non vedi che Abramo, mentre va in cerca di ospiti, accoglie come ospite Dio? Non vedi che Loth ospitò gli Angeli? Come sai se anche tu, quando accogli un uomo non accolga Cristo? Sebbene nell'ospite c'è Cristo, perché Cristo è nel povero, come egli stesso ha detto:» Ero in carcere, e veniste da me, ero nudo e mi vestiste» (Math.,XXV,36).
108. È dolce cosa, quindi, non avere la passione del denaro ma occuparsi vivamente di far cose gradite. Però è un bel pezzo che nel cuore umano s'è infiltrato il male di tenere in onore il denaro e di lasciarsi abbagliare dalle ricchezze. L'avarizia, in conseguenza, vi si è cacciata dentro e guisa di un vento bruciante ha inaridito tanti buoni doveri; cosicché gli uomini ritengono come ua perdita tutto ciò che si spende fuori dal solito. Ma perché l'avarizia non potesse porre impedimenti la Scrittura, che reclama il nostro rispetto, ha pensato anche a questo riguardo ad assalirla, dicendo: «È preferibile l'ospitalità con pochi legumi» (Prov.,XV,17) «È meglio un pezzo di pane nella dolcezza della pace» (Prov.,XVII,1). La Scrittura, infatti, non ci vuole prodighi ma liberali.
109. In verità vi sono due modi di dare: uno decoroso, un altro di eccessiva prodigalità. È giusta liberalità l'accogliere ospiti, vestire gli ignudi, riscattare i prigionieri, e aiutare chi non ne ha, spendendo del nostro; è prodigalità il largheggiare con sontuosi banchetti e gran coppe di vino; perciò ha detto: «Lussuriosa cosa è il vino e tumultuosa l'ubriachezza» (Prov., XX,1). È da prodigo dissipare le proprie sostanze per guadagnarsi la popolarità:come fanno coloro che dilapidano il patrimonio per i giochi del circo, per i teatri, per gli spettacoli dei gladiatori ed anche per la caccia, per sorpassare la celebrità dei loro predecessori; mentre tutto questo non è che vanità; ed anche perché l'eccesso di spese non è bello neppure per le opere buone.
110. La giusta liberalità ha la sua misura perfino con i poveri, appunto per giovare a più; e non largheggia eccessivamente per guadagnarsi favore. È bello, quello che si mette fuori con sentimento puro e sincero; non l'intraprendere a costruire senza bisogno; e non trascurare di edificare se è necessario.
111. Sta bene al sacerdote adornare il tempio di Dio con il dovuto decoro, perché la reggia del Signore risplenda anche sotto questo aspetto; fare di frequente spese richieste da opere di misericordia; trattare i pellegrini secondo il bisogno, non con superficialità, ma secondo la convenienza; non con sovrabbondanza, ma con senso di umanità perché non si acquisti il favore altrui con danno dei poveri; e con i chierici non si mostri né tirato né troppo indulgente. La prima cosa sarebbe inumana, la seconda eccessiva, se tu non fornissi il necessario a coloro che tu devi ritrarre dal sordido mercantilismo, o se nell'abbondare ne assecondassi le voglie.
CAPITOLO XXII
112. Ci vuole anche la misura nelle parole stesse e nei comandi, perché non vi sia né troppa indulgenza ne troppa severità. Molti infatti preferiscono essere molto indulgenti per comparire come buoni: ma è certo che niente di simulato e di fittizio ha la vera virtù anzi per di più ha poca durata. Da principio germoglia primaverilmente; col tempo, come un fiorellino, si guasta e si disfà:mentre invece ciò che è vero e schietto mette profonde radici.
113.E per confermare con esempi la nostra asserzione, che cioè, quello che è finito, non può durare a lungo, ma a guisa di pianticella per breve tempo verdeggia e poi svanisce, noi proprio della famiglia che ci ha dati moltissimi esempi a profitto della virtù, metteremo fuori una prova di dolorosa simulazione.
114. Assalone (II Reg., XV,1 e ss.), figlio del re David, era d'aspetto distinto, notevole per bellezza, prestante per gioventù, di modo che in Israele non se ne trovava un altro simile:tutto un candore da capo a piedi.
Si era fatto cocchi e cavalli e aveva cinquanta uomini, che dovevano marciare dinanzi a lui. S'alzava all'alba e si metteva diritto sulla porta del palazzo che dava sulla via; e se scorgeva uno che avesse richiesto giustizia dal re gli si accostava dicendo: Di che città sei? Rispondeva: Io sono di una delle tribù d'Istrael, servo tuo: Replicava Assalone: le tue parole sono buone e giuste, ma dal re non ti è stato dato chi ti ascoltasse. Se uno mi stabilirà come giudice, allora chiunque verrà da me di quelli che hanno bisogno di giustizia, io gliela farò. Con simili discorsi si guadagnava l'animo di ognuno. E, quando qualcuno s'accostava per riverirlo, gli porgeva la mani e, abbracciatolo, lo baciava. Così si inimicò l'animo di tutti; che tali cortesie toccavano l'intimo del nostro cuore.
115. Ma tale gente voluttuosa e ambiziosa accolse volentieri tali segni d'onore graditi e piacevoli per un certo tempo; ma quando fu trascorsa la dilazione che il profeta (David) nella sua saggezza credette bene di interporre col cedere alquanto, non poté più tollerarlo e sopportarlo. In ultimo non dubitando affatto David della vittoria, raccomandava a quelli che avrebbero combattuto che lo risparmiassero. Perciò appunto non volle prendere parte al combattimento, perché non sembrasse riportare vittoria di un parricida è vero ma tuttavia suo figlio.
116. È quindi chiaro come soltanto ciò che è vero, dura nella sua saldezza, e tutto ciò che si guadagna con la sincerità e non con l'inganno; quello invece che ci prepariamo con la simulazione e con l'adulazione non può reggere a lungo.
CAPITOLO XXIII
117. Chi dunque potrebbe credere che siano fedeli quelli che sono portati all'obbedienza dal denaro, che vi sono stati invitati dall'adulazione? I primi infatti vogliono vendersi spesso, ed i secondi non possono tollerare il giogo di un duro comando. Facilmente si lasciano irretire la leggiera adulazioncella; ma se rivolgerai una parola di rimprovero, brontolano abbandonano, si allontanano inimicati, lasciano sdegnati, preferiscono comandare anziché obbedire, e, schiavi del beneficio, ritengono che debbono essere loro soggetti, quelli che invece dovrebbero essere a loro preposti.
118. Nessuno dunque può pensare fedeli quelli che si è legato o col denaro o con adulazione. Infatti chi riceve il denaro, se spesso non è ricomprato, si ritiene vile fino al dispregio. Aspetta perciò ogni momento il prezzo dovutogli; e chi si vede circuito da preghiere vuole che sempre a lui si ricorra.
CAPITOLO XXIV
119. Ritengo pertanto che si debba salire agli onori con azioni buone e con sincero intanto, massimamente se si tratti di onori ecclesiastici; perché non si dia luogo né ad una tronfia di arroganza, o ad una negligente rilassatezza; né ad una vergognosa affettazione e ad una indecorosa ambizione. La semplicità diritta di animo è più che sufficiente allo scopo, perché si raccomanda abbastanza da sé.
120. Nell'esercizio del proprio ufficio non sta bene né una severità dura, né una indulgenza eccessiva; perché nel primo caso non paia che vogliamo esercitare il nostro potere, nel secondo non sembri che trascuriamo di fare il dovere assunto.
121. Cerchiamo con zelo di guadagnarci moltissimi con i benefici e le maniere cortesi, e manteniamo il favore che abbiamo dato, perché non si dimentichino con ragione del beneficio quelli che si dolgono di essere stati gravemente lesi. Spesso infatti accade che quelli che hai protetto con qualche grazia o promosso ad un grado superiore,te li rendi contrari, se immeritatamente giudichi di dovere loro anteporre qualche altro. Ma si richiede pure che il sacerdote (Vescovo) mostri favore ai suoi con i benefici e con i giudizi per mantenere l'equità, che sia deferente al prete od al ministro come ad un padre.
122. Questi però, una volta approvati, non hanno da essere arroganti, ma tenersi maggiormente umili, memori come debbono essere, della grazia ottenuta; ed il sacerdote (Vescovo) non si ritenga offeso se un prete, od un ministro, o qualsiasi del clero cresce nella stima o per la sua misericordia, o per i digiuni, o per l'integrità, o per la dottrina, o per la lettura. Che si lodi un dottore è una grazia per la Chiesa. È buona cosa che si faccia noto l'operare di qualcuno; purché non si faccia per mania d'ostentazione. Non siano le proprie labbra, ma quelle del prossimo a lodare ognuno; e non i propri desideri, ma le opere siano le sue commendatizie.
123. Del resto se uno non obbedisce al vescovo e desidera magnificare ed esaltare se stesso, ed oscurare i meriti del suo superiore o con simulata dottrina, o umiltà, o misericordia; questi fuori dalla verità s'invanisce; giacché la regola della verità impone di non far nulla per propria gloria col fine di abbassare gli altri, e, se qualcosa di buono ti trovi ad avere, non deve servirti a fare sfigurare un altro od a vituperarlo.
124. Non prender la difesa dei malvagi e non ritenere di potere affidare le cose sante ad un indegno: e se non hai scoperto che abbia mancato, non volere di nuovo urtare od assalire nessuno. Infatti, se l'ingiustizia subito ci urta in tutti, principalmente ci urta nella Chiesa dove ha da regnare l'equità, dove conviene che vi sia l'uguaglianza; cosicché chi è più potente, non s'arroghi nulla di più, e chi è più ricco, nulla di più si prenda. O ricchi, o poveri, tutti sono in Cristo una sola cosa. Chi è più santo non si attribuisca di più, giacché conviene che sia anche più umile.
125. Nel giudicare non pigliamo le parti di alcuno;non ci sia favoritissimo, e i soli meriti della causa motivino il giudizio. Nulla nuoce tanto alla stima anzi anche al credito, quanto l'appoggiare chi è più potente in una causa con un inferiore; oppure quanto a far colpa ad un innocente perché povere; e discolpare uno reo, perché ricco. Gli uomini sono proclivi a favorire i più onorati, perché non si reputino offesi, e non si dolgano, se vinti. Ma prima di tutto se temi di offenderli non assumerti di giudicare: se sei sacerdote o chi sia, non provocare. Ti è permesso tacere solamente in questione d'interessi; quantunque è proprio di chi ha un carattere sostenere la giustizia. Se però c'è impegnata la causa di Dio, e c'è il pericolo di comunicare per i fratelli cristiani, anche il dissimulare è peccato grave.
CAPITOLO XXV
126. Che mai ti giova, se favorisci il ricco? Forse pensi che assai presto rimuneri chi l'ama? Infatti più spesso siamo soliti favorire coloro dai quali speriamo il contraccambio. Ma per questo appunto dobbiamo maggiormente interessarci del debole e del povero; perché invece sua, che non ha, attendiamo la ricompensa da Gesù Cristo (Luc., XIV, 12-13); il quale sotto l'immagine di un banchetto mise in luce il modello generale delle virtù, perché di preferenza noi beneficiassimo quelli che non possono ricambiarci il beneficio, insegnandoci ad invitare al banchetto i poveri e non i ricchi. Sembra infatti che i ricchi vengano invitati, perché a loro volta ci invitino; i poveri al contrario, quando hanno accettato, siccome non hanno modo di contraccambiarci ci offrono come rimuneratore il Signore, il quale si è obbligato, al posto del povero.
127. Il beneficio fatto al povero, anche per la vita di questo mondo, giova di più di quello fatto al ricco; perché il ricco sprezza il beneficio e si vergogna di essere debitore di un favore: che anzi, ciò che gli è stato dato, lo ritiene dovuto ai suoi meriti, quasi l'ascesa e ricevuto per diritto, oppure perché gli è stato con l'intenzione che, chi glielo ha dato, si attenda dal ricco un contraccambio più generoso. Quindi nel ricevere i benefici se avviene che chi lo riceve è un ricco, per questo stesso crede di averlo fatto più che di averlo ricevuto; il povero invece; sebbene non abbia come restituire il denaro, offre la sua gratitudine. E con ciò dà di più che non riceva: infatti il denaro si paga con altro denaro, ma la gratitudine non viene mai meno. Con la restituzione un debito si spegne, ma la gratitudine con l'averla si paga, col pagarla si tiene. Inoltre, il povero(oh, ma il ricco se ne guarda bene!), confessa di essere legato da un debito, di aver ricevuto un soccorso e non lo ritiene dato al suo merito: stima che gli sia stato fatto il dono della vita e salvata la famiglia. Quanto perciò è preferibile fare il beneficio ai buoni, che agli ingrati!
128. Il Signore pertanto dice ai suoi discepoli: " Non vogliate possedere né oro, né argento, né denaro" (Math., X, 9); e con tale massima taglia al piede la pianta dell'avarizia che germina nel cuore umano. Pietro pure dice allo storpio: " Non ho né oro, né argento: ma ti di quello che ho. In nome di Gesù Cristo Nazareno lèvati e cammina" (Act., III, 6). Non dette denaro, dette la guarigione. E non è meglio avere la salute senza il denaro che il denaro senza la salute? Si drizzò su lo storpio, e non lo sperava; non ebbe il denaro che sperava. Però appena nei santi si trova che disprezzino le ricchezze.
CAPITOLO XXVI
129. Ma ecco che gli uomini di solito sono talmente proclivi ad ammirare le ricchezze che solo il ricco stimato degno di onore. Il malvezzo è vecchio, perché è un gran pezzo- e questo è peggio- che tale vizio s'è radicato nel cuore degli uomini. In vero, dopo che al suolo la grande città di Gerico, e Giosuè ottenne la vittoria, subito s'accorse che il valore del popolo s'era indebolito per l'avarizia e la cupidigia dell'oro. Infatti, avendo Achar tolto dalle spoglie della città incendiata una veste d'oro e duecento didramme d'argento, e una lamina d'oro, sacrificato al Signore scoprì il furto senza poterlo negare (Iosuè, VII, 19 e ss.).
130. L'avarizia è un vizio vecchio e antico, che ebbe il suo inizio con la promulgazione della stessa Legge di Dio, anzi essa fu propriamente data per presto reprimerla. Per l'avarizia Balach pensò di poter corrompere Balaam per indurlo a maledire il popolo dei patriarchi: e l'avarizia avrebbe avuto vittoria, se il Signore non gli avesse proibito di astenersi dal maledirlo (Num.. XXII, 7 e s.s.). Per l'avarizia Achar si rovinò e trascinò nella rovina la moltitudine dei parenti. Giosuè che riuscì a fermare il sole, non poté arrestare l'avarizia degli uomini, sicché questa non si infiltrasse. Alla sua parola si fermò al sole, non l'avarizia. Fermato il sole, Giosuè fece il trionfo: ma per il dilagare dell'avarizia poco mancò che la vittoria non fosse vana.
131. Sansone, il più forte degli uomini, non fu forse ingannato dall'avarizia della donna, Dalila? Pertanto quegli che con le sue mani sbranò il leone che rugge, che legato consegnato a stranieri, senza aiuti, da solo, rotti legami, ne uccise mille,che stracciò, come se si trattasse di sottili fili di giunco, le funi fatte di nervi attorcigliati, piegato il cavo sulle ginocchia della donna e mozzato perdette quello che era la prerogativa del suo valore, l'ornamento dei suoi capelli che lo rendevano invincibile. Il denaro trova la via per insinuarsi nel grembo della donna,e la grazia si allontanó dall'uomo.
132. Funesta cosa è l'avarizia, e il denaro pieno di attrattive; contamina chi lo ha, non giova chi non lo ha. Tuttavia si dà il caso che il denaro aiuti; sicuramente però chi è da meno e lo desidera. Ma colui che lo desidera, che non lo cerca, che non ha bisogno dell'aiuto che può dargli e che non si piega per voglia che ne abbia? E che agli altri, se, colui che ne ha, neanche in abbondanza?Forse aumenta la sua onestà, perché di ciò che ha più che possessore è custode? Noi possediamo quello di cui ci serviamo: quello di cui non ci serviamo, non c'era il frutto del possederlo, ma il pericolo nel doverlo custodire.
CAPITOLO XXVII
133. In quello che abbiamo brevemente esposto, vediamo come il disprezzo del denaro sia un aspetto della giustizia; perciò dobbiamo fuggire l'avarizia e tendere con tutto lo zelo a non far nulla che violi il giusto, ma custodirlo in ogni nazione e in ogni opera.
134. Se vogliamo renderci cari a Dio, abbiamo carità, siamo unanimi, seguiamo l'umiltà, ritenendo gli altri superiori a noi. L'umiltà infatti vuole che non ci arroghiamo nulla e che ci veniamo da meno degli altri. Il vescovo si serva dei chierici, come delle sue membra; e principalmente dei ministri, i quali sono davvero suoi figli; e una ciascuno assegni in ufficio per il quale lo vede idoneo.
135. Si taglia con dolore perfino quella parte del corpo che è andata in cancrena; e a lungo si pondera se è possibile sanarla con i medicamenti; se poi non si può, da una buon chirurgo si fa tagliare. Il sentimento(I) di un buon vescovo sta nel desiderare di guarire gli infermi, togliere le ulcere che si formano lentamente, cauterizzare e non recidere alcune parti; all'ultimo soltanto, quando la guarigione è impossibile, tagliare con dolore la parte. Sotto tale riguardo spicca in tutta la sua bellezza il precetto di pensare non a ciò che nostro, ma ciò che degli altri (Phil.II,4). In tale maniera non vi sarà pericolo che nell'ira assecondiamo il nostro particolare affetto, o che per parzialità assecondiamo la nostra volontà più del giusto.
CAPITOLO XXVIII
136. Il più grande invito che possa farci la misericordia è quello di compatire le altrui sventure e giovare, secondo le nostre possibilità, alle altrui necessità, e talora anche più di ciò che possiamo. Vale meglio infatti per motivi di misericordia suo addossarsi le cause, incontrare perfino l'ostilità, che mostrarsi senza pietà. Noi, per esempio, un tempo fummo in odio, perché sprezzando i vasi sacri per il riscatto dei prigionieri; il che era stato visto di malocchio agli ariani, non tanto per il fatto in sé, quanto per avere da ridere sul nostro conto. Ora chi è così duro, crudele e insensibile da provare dispiacere che non un uomo venga riscattato da morte, una donna sottratta alla libidine dei barbari, cosa peggiore della morte stessa, che delle fanciulle, dei fanciulli e perfino dei bambini dalla peste dell'idolatria che per timore della morte li minacciava?
137. Questa questione, sebbene fosse stata da me trattata non senza un qualche riguardo, pure dinanzi al popolo la portammo al punto da confessare ed aggiungere che la sta chiudere salvare le anime per il Signore che conservare l'oro(Math., X,9). Colui che ha mandato gli Apostoli senza oro senza oro ha congregato la Chiesa. La Chiesa non ha l'oro per conservarlo, ma per spenderlo per soccorrere nelle necessità. A che custodire ciò che non deve servire? Ignoriamo forse tutto l'oro l'argento che gli Assiri portarono via dal tempio del Signore?(IV Reg., XXIV,13) Non fanno meglio i sacerdoti, se altri mezzi mancano, a fonderlo per nutrimento dei poveri,piuttosto che un nemico, contaminandoli, sacrilegalmente li poti via? Il Signore forse no dirà: «perché hai lasciato morire tanti indigenti? L'oro certo l'avevi, e avresti dovuto fornire l'alimento. Perché tanti prigionieri furono messi in vendita, e, non riscattati, sono stati uccisi dal nemico. Era assai meglio salvare i corpi dei vivi che non vasi di metallo»
138. A simili rimproveri non si potrebbe replicare. Che potresti dire? Ebbi timore che il tempio del Signore rimanesse disadorno. Ti risponderebbe: i sacramenti non cercano l'oro; mi piace per ragione dell'oro ciò che non si compra con l'oro. Ciò che è di ornamento ai Sacramenti serve al riscatto dei prigionieri. Sono davvero preziosi i vasi che salvano le anime dalla morte. È davvero tesoro del Signore quello che serve ad ottenere ciò che ha ottenuto il prezzo del suo sangue. Allora proprio si riconosce pervaso del sangue del Signore quando per l'uno e per l'altro si vedrai riscatto; cosicché il calice riscatti dal nemico colore che il sangue ha riscattato dal peccato. Che bellezza che si possa dire, quando la Chiesa ha riscattato schiere di prigionieri: Questi Cristo li ha redenti! Questo è l'oro degno di lode, oro utile, oro di Cristo che libera dalla morte, che salva il pudore, conserva la castità.
139. Preferii perciò consegnarvi liberi costoro anziché conservare l'oro. Il numero di questi prigionieri, questa loro schiera vale più della bellezza dei calici. Al simile compito dovette giovare l'oro del Redentore, cioè a salvare chi era in pericolo. Lo riconosco che il sangue di Cristo messo nel calice d'oro non solo mandò bagliori, ma ancora per essere servito a redenzione, ha impresso il sigillo dell'azione divina.
140. San Lorenzo martire tale oro lo riservò per il Signore: perché domandato dei tesori della Chiesa promise che li avrebbe mostrati. Il giorno seguente condusse i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò i poveri dicendo: Ecco Cristo quelle in cui è la fede. L'Apostolo infatti dice: «abbiamo il tesoro in vasi di creta»(II Cor., IV, 7). Quali tesori migliori ha Cristo di quelli nei quali dice di essere Lui stesso?Sta scritto: «ebbi fame mi deste da mangiare; ebbi sete e mi desta da bere; ero pellegrino e mi ospitaste» (Math., XXV, 35) E poco dopo: «Quello che avete fatto ad uno di costoro l'avete fatto a me» (Ib., 40). Quali tesori migliori a Gesù di quelli i quali vuole essere rappresentato?
141.Lorenzo mostrò tali tesori, e vinse; perché questi neanche il persecutore lì poté portar via. Joachim che nell'assedio conserva l'oro senza distribuirlo per provvedere di cibo, vide portare via loro e se stesso come prigioniero(IV Reg., XXV,13). Lorenzo che preferì distribuire ai poveri l'oro; anziché serbarlo per il persecutore, in grazia della vivace e originale sua interpretazione ebbe la corona sacra del martirio. Fu detto forse a Lorenzo: non dovevi dare i tesori della Chiesa e vendere i vasi che servono per i sacramenti?
142. Ognuno deve compiere questo ufficio con fede sincera con oculata e previdenza. In verità, se alcuno li storna a suo vantaggio, commette un'infamia; se invece li dà ai poveri, riscatta un prigioniero, fa fatto di misericordia. Nessuno infatti può dire: perché il povero vive? Esso non può lamentarsi che siano riscattati i prigionieri; nessuno può muovere l'accusa di si sia edificato il tempio di Dio; nessuno può sdegnarsi, perché si è allargato lo spazio per inumare le reliquie dei fedeli; nessuno può lamentarsi se nelle sepolture dei Cristiani vi sia il riposo dei morti. Per queste tre opere è permesso spezzare, fondere, vendere i vasi della Chiesa anche consacrati.
143.È necessario che dalla Chiesa non esca fuori il calice della mistica bevanda, perché dalla funzione di calice sacro non passi ad usi profani. Perciò dentro la Chiesa fatta prima l'incetta dei vasi non sacri; quindi si sono spezzati, fusi e distribuiti in piccole erogazioni ai bisognosi, e giovarono pure come riscatto per i prigionieri. Che se mancano i nuovi e quelli che non sembrassero consacrati, io credo che possono senza offesa la doveva adoperarsi per gli usi sopraddetti.
non piccolo; ma se è dispensa ai poveri, ricompera prigioni, è misericordia. Perché nessuno può dire: Perché vive il povero? ( ) .Nessuno si può rammaricare, che i prigioni siano riscattati. Nessuno può riprendere che si sia edificato il tempio di Dio. Nessuno si può sdegnare che si lascino gli spazi per sotterrar le ossa dei fedeli. Nessuno se ne può dolere, perché nelle sepolture dei cristiani è il riposo dei passati. Per queste tre sorti di cose è lecito spezzare i vasi della Chiesa, ancora i sagri, fondergli o vendergli.
143. Fa bene di mestiere che della Chiesa non esca la forma del vaso sacro, e che il ministero del sacro calice non si converta in usi brutti. Però furono prima della Chiesa introdotti vasi, che non fossero sacri; appresso furono spezzati e finalmente battuti; furono per piccole distribuzioni dispensati ai poveri e giovarono ancora non poco ai prigioni. Ma se mancano i nuovi e quelli che non sono ancora sacri, giudico che tutte le cose si possano piamente convertire in simili usi, quali noi abbiamo sopra parlato.
CAPITOLO XXIX
144. Egli bisogna bene usare ogni diligenza, che i depositi delle vedove si tengano in modo che non vi siano poste su le mani, e si conservino senza offensione alcuna; e non solamente delle vedove ma ancora di tutti. Perché la fede si deve mantenere a tutti, ma di maggior considerazione sono le cagioni delle vedove e dei pupilli.
145. Finalmente per questo solo nome di vedove, secondo quello che noi abbiamo letto nei Maccabei ( 2 Mac 3.10 ), tutto quello che fu raccomandato dalla Chiesa, fu conservato. Perché subito che si ebbe inizio dei denari, che lo scellerato Simone manifestò al re Antioco trovarsi in gran quantità nel Tempio di Gerusalemme, Eliodoro mandato in Gerusalemme ( mandato sul fatto, sullo stesso luogo. PP.Maurini ) venne al Tempio, e manifestò al Sommo Sacerdote il carico di tale inizio e la cagione della sua venuta.
146. Allora il Sacerdote disse che egli eran messi lì in deposito per vitto di vedove e di pupilli: ed una parte essere d'Ircano di Tobia uomo santo, e questa gli mostrò. La somma era quattrocento talenti d'argento e duecento d'oro. Le quali cose subito che Eliodoro mostrò di voler usurpare e tirarle ai comodi del re, i Sacerdoti vestiti colle stole sacerdotali si gettarono innanzi all'altare e piangendo invocavano il vivo Dio che aveva data la Legge dei depositi, che volesse far osservare i suoi comandamenti. Ma la faccia ed il colore del Sommo Sacerdote era di tal maniera mutata, che facilmente appariva il dolor dell'animo e l'ansietà della intenta mente. Tutti piangevano, considerando che quel luogo sarebbe al tutto vilipeso, se né ancora nel tempio di Dio si mantenesse sicura guardia della fede : e le donne fasciatesi il petto di cilicio, e le rinchiuse vergini picchiavan le porte; altri correvano alle mura, alcuni stavano a vedere dalle finestre, tutti insieme alzavano le mani al cielo pregando il Signore che difendesse le sue Leggi.
147. Ma Eliodoro, che non si spaventava per queste cose, sollecitava il bisogno e aveva accerchiato colla sua guardia il luogo dove stavano i tesori. Ed ecco subito apparire un valoroso cavaliere splendente per le dorate armi : ed il suo cavallo era ornato con superba coperta. Comparvero ancora lì due altri giovani di suprema virtù, di grazioso aspetto con lo splendor di gloria, con vaghi vestiti, i quali lo misero in mezzo e dall'una banda e dall'altra, senza mai punto restar, lo batterono. Che più! Egli sopraggiunto da una folta nebbia cadde a terra, e giaceva mezzo morto con manifesti segni delle operazioni divine; né era in lui speranza alcuna di salute. Cominciarono i paurosi ad rallegrarsi, ed i superbi ad impaurire, e alcuni degli amici di Eliodoro atterriti pregavano con gran riverenza Onia che gli impetrasse la vita, perché egli era in sul trapassare.
148. Per le preghiere dunque del Sommo Sacerdote i medesimi giovani di nuovo apparvero ad Eliodoro, vestiti colle medesime vesti, e gli dissero: ringrazia Onia Sommo Sacerdote, perché la vita ti è per lui resa; e tu che hai provato i flagelli di Dio, va e manifesta a tutti i tuoi quanta religione e podestà di Dio tu hai conosciuto nel tempio : e dopo tali parole mai più si videro. Eliodoro pertanto riavuta che ebbe la vita, sacrificò una vittima al Signore, ringraziò Onia Sacerdote e coll'esercito se ne tornò al Re con queste parole: se tu hai nemico alcuno o persona che ti voglia male, indirizzalo qui ed egli tornerà a te tutto flagellato.
149. Bisogna dunque, figlioli miei, conservare i depositi ed averne gran cura. Quindi risplende assai il ministero vostro, se voi raffrenate i soprusi dei potenti coll'aiuto della Chiesa; i quali non possono essere tollerati dalle vedove o dai pupilli: se voi mostrerete di tener più conto dei comandamenti di Dio che dei favori dei ricchi.
150. Ricordatevi quante volte io ho avuto a combattere contro gli impeti dei Re, per mantenere i depositi delle vedove ; anzi di tutti. Io vi racconto per esempio un caso che lo sapete voi ancora, come io, di nuovo nella Chiesa di Pavia che portava pericolo di perdere u deposito, ch'ella aveva in custodia da una vedova. Perché giuridicamente domandandolo colui che se lo voleva appropriare per avere il rescritto dell'imperatore, i preti non mantenevano l'autorità loro: e quei potenti e coloro che opponevano per essere stati dati per esecutori, dicevano che non potevano fare contro a quel che aveva comandato l'Imperatore. Leggevasi la più stringente forma del rescritto : era stipulata una commissione del Maestro degli Uffici, gli agenti stavano nel negozio. Che più? Il deposito era già dato
151. Nientedimeno presone meco parere il Santo Vescovo attorniò quel conclave dov'egli sapeva che s'era trasportato il deposito della vedova. Il quale poiché non né potè portare, se ne fece fare inventario e ricevuta, per vigor della quale si mise di nuovo a dimandarlo. Aveva l'Imperatore rinnovato il comandamento tanto che da se stesso ce lo domandò. Gli fu negato e dichiarata l'autorità della legge divina, e l'ordine della lezione ed il pericolo d'Eliodoro; a fatica finalmente l'Imperatore accettò le ragioni. Di poi si tentò di torlo nascosto, ma il Santo vescovo anticipò di rendere alla vedova quel ch'egli aveva di suo. In questo mentre la fede è salva: il credito non fu violato, perché oramai non portava pericolo la fede, ma solamente la roba.
CAPITOLO XXX
152. Figlioli, schivate gli scellerati, e guardatevi dagli invidiosi. Questa differenza è tra scellerato e l'invidioso, che lo scellerato si diletta dei suoi beni; e l'invidioso degli altri si affligge. Quelli ama le cose cattive; ha in odio le cose buone, di maniera che egli par quasi più tollerare chi vuol bene a se, che chi vuol male a tutti.
153. Figlioli, quando voi avete a fare con una cosa, pensatevi innanzi, e quando voi vi avete pensato lungo tempo, allora fate quel che vi par meglio. Beato è il morire quando se ne ha occasione lodevole, ed allora si deve subito rapirla. L'onore, che si differisce, si fugge, né si può facilmente comprendere.
154. Amate la fede; imperciocchè Giosia( 4.Reg.23 .) mediante la fede e devozione si acquistò gran benevolenza da tutti perché egli celebrò la Pasqua del Signore essendo di diciotto anni: io che non fece alcuno avanti a lui. Pertanto siccome vinse i suoi Passati di divozione, così similmente voi Figlioli siate zelatori di Dio. Ritrovisi in voi tale zelo del Signore, che in tal maniera vi consumi, che ciascuno di voi dica con verità: lo zelo della casa tua mi ha ricercato. L'Apostolo si diceva zelatore di Cristo. Ma perché so io menzione dell'Apostolo? Lo stesso Signore disse: lo zelo della casa tua mi ha consumato. Si trovi dunque in voi lo zelo di Dio; non quello umano, generato dall'invidia.
155. Si trovi tra voi la pace, la quale avanza ogni sentimento. Amatevi l'un l'altro. Nessuna cosa è più soave, che la carità; nessuna più gioconda che la pace. E voi stessi sapete che io sempre vi ho amati, ed amo più, che gli altri. Voi siete cresciuti insieme nell'affezione della mia fratellanza a guida di figlioli di un medesimo padre.
156. Mantenete le cose che son buone, e il Dio della pace farà con esse voi in Gesù Cristo, al quale è onore, gloria, magnificenza, podestà con lo Spirito Santo nei secoli dei secoli.Amen.
LIBRO III
CAPITOLO I
1. Il profeta Davide ci insegnò a passeggiare per il nostro cuore, quasi per una ampio , e conversar con quello, come con un ottimo compagno: tanto chè egli a se stesso diceva; e seco medesimo parlava: Io ho detto, io custodirò le mie vie, e Salomone tuo figliolo ancora disse: Bevi dell'acqua dei tuoi vasi, e delle fonti dei tuoi pozzi, cioè consigliati teco medesimo, perché l'acqua profonda è il consiglio nel cuore dell'uomo. Non ne far, dice, partecipe alcun forestiero; fa di avere una fonte d'acqua particolare, e sta allegro con la donna, che tu hai dalla gioventù; il cervo dell'amicizia ed il puledro delle grazie ragionino in te.
2. Non fu dunque Scipione il primo, che sapesse di non essere solo, quando egli era solo: né manco ozioso, che quando egli era ozioso. Prima di lui lo seppe Mosè, che gridava mentre egli taceva, e combatteva mentre egli stava ozioso e non solamente combatteva, ma ancora trionfava dai nemici . Era tanto ozioso, che gli altri sostenevano le sue mani, né era meno occupato degli altri; che con le oziose mani espugnava il nemico, che non poteva essere vinto da quelli che combattevano. Mosè dunque parlava nel silenzio e nell'ozio operava. E chi ha mai avuto negozi tanto importanti quanto l'ozio di questi; che stando quaranta giorni sul monte, apprese tutta la Legge e non mancò in quella solitudine chi con esso lui favellasse? La dove Davide disse: Io ascolterò quel che Iddio parlerà in me. E quanto è egli più se Iddio parla con qualcuno che parlare se stesso?
3. Passavano gli Apostoli, e l'ombra loro sanava gli infermi. Erano tocchi i loro vestimenti e derivavano la sanità.
4. Parlò Elia, e la pioggia si fermò, né per tre anni e sei mesi cadde sopra la terra. Oltre a questo parlò un'altra volta, ed il vaso della farina non venne meno, e quell'olio in tutto il tempo della lunga fame non si svuotò giammai.
5. E perché molti si dilettano delle cose della guerra. Che cosa è più eccellente; dar fine ad una guerra con le braccia di un grande esercito o coi soli meriti? Eliseo sedeva in un luogo e il re di Siria faceva una grande guerra al popolo dei Padri e li aspreggiava con diverse sorte di frodi e gli insegnava con agguati di accerchiarli; ma il profeta sapeva tutti quanti i suoi provvedimenti; ed essendo per la grazia di Dio con il vigor della mente presente in tutti i luoghi, avvisava ai suoi i pensieri dei nemici e gli avvertiva in quali luoghi dovevano guardare: questo che subito pervenne agli orecchi del re di Siria, con un esercito serrò il profeta. Ora Eliseo fece accecare tutti coloro che erano venuti ad assediarlo.
6. Ora agguagliamolo quest'ozio a quel degli altri. Perciocchè gli altri vogliono levare la fantasia dalle faccende per riposarsi, e rimuoverli dalla moltitudine e conversazione degli uomini, ed andarsene in una segreta villa, cercare le solitudini dei campi, o dentro alla città sciogliersi dai fastidi e dar opera alla quiete e alla tranquillità. Ma Eliseo nella solitudine col suo passare divise il giordano in tal modo che la parte sotto correva all'ingiù al solito e la parte di sopra ritornava verso la sua fonte; o nel Carmelo faceva che una sterile rimanesse in cinta contro l'opinione di chiunque la conosceva, levatagli gli impedimenti, che ella aveva nel generare; o risuscitava morti; o temperava l'amarezza dei cibi e col mescolare la farina li faceva addolcire; o col distribuire solamente dieci pani; satollato che egli aveva il popolo ricoglieva quel che avanzava, o veramente essendo uscito il ferro della scure e caduto nel fiume Giordano: col mettere il manico nell'acqua lo faceva venire a galla; o egli mondava il lebbroso e mutava il secco con le piogge; o egli scambiava la fame con l'abbondanza.
7. Quando dunque è solo il giusto, che sta solo con Dio? Quando sta egli solitario chi non è separato da Cristo? Spero che né la morte, né la vita, né gli angeli. Quando si allontana egli dalle faccende, colui che non si parte mai del merito, col quale ad esse si da compimento? Ed in quali luoghi egli rimane ristretto chi possiede tutte le ricchezze del mondo? Di quanto pregio è egli stimato chi non si può comprendere con opinione? Imperciocché in un tempo medesimo( 1Cor.6.8) egli è quasi conosciuto, e non conosciuto: quasi morto ed ecco che vive quasi malinconioso ed eccolo sempre più allegro; povero ed abbondevole, come quegli che non ha cosa alcuna, se non quel che è giusto ed onesto. E però ancora che agli altri appaia povero, è non di meno in sé ricco, come quegli, che non è giudicato dalla stima delle cose che son caduche, ma di quelle che son eterne.
CAPITOLO II
8. E perché noi abbiamo trattato dei due primi luoghi, nei quali abbiamo mostrato quell'onesto e utile, resta al presente che si vegga se noi abbiamo a comparare l'onestà e l'utilità tra loro e cercar dopo questo quel che seguir si deve. Perché siccome noi abbiamo trattato di sopra se quello fosse onesto o brutto, e dopo questo se egli è utile o disutile; così nel medesimo modo molti pensano che si debba cercare se una cosa è onesta o utile.
9. Ma noi diciamo per non parere di voler indurre queste cose come ripugnanti fra loro, quali abbiamo già mostrato sopra di essere una medesima cosa; che egli non può essere onesto, se non quel che è utile, né utile se non quel che è onesto: imperciocchè noi non cerchiamo la sapienza della carne, appresso la quale si tiene più conto dell'utilità del denaro; ma la sapienza, che procede da Dio, appresso la quale tutte le cose, che sono di gran pregio in questo secolo, sono riputate per danni.
10. Perciò questo Catorthoma( .) che è il perfetto e compiuto ufficio, si deriva dalla vera fonte della virtù. Al quale l'ufficio comune è inferiore: che si esprime col parlare, che quel che può essere comune a molti, non è difficile né di singolare virtù. Perché cercare di accumulare denaro è cosa famigliare a molti, il dilettarsi di delicati cibi e di squisite bevande è cosa usata. Ma il digiunare e l'essere continente è cosa usata da pochi e il non diaria l'altrui è cosa rara. E l'opposto è il voler troppo quello degli altri, e il non accontentarsi del suo. Perciò questa cosa è molto comune. Altri dunque sono i primi uffici e altri i medi; i primi sono comuni con pochi, i medi con molti.
11. Finalmente nelle medesime parole molte volte EVVI differenza. Perché noi in un modo chiamiamo buono Iddio, e in un altro l'uomo; in un modo diciamo che egli è giusto Iddio, e in un altro l'uomo. E finalmente in un modo diciamo Iddio essere savio e l'uomo in un altro. Come appare nel Vangelo( Mt 5.48) Siate perfetti, siccome è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli. E Paolo stesso dice essere perfetto, e non perfetto. Perciò quando egli ebbe detto: (Phil. 3.12) Non ch'io l'abbia già ricevuto, o ch'io sia perfetto, ma lo seguirò per ottenerlo; subito soggiunse Ibid.15.) Quanti dunque siano perfetti. Perciò la forma della perfezione è di due sorti: l'una che ha tutti i numeri, l'altra che ne ha parte; una qui, l'altra quivi. L'una secondo la possibilità dell'uomo, l'altra secondo la perfezione futura. Ma Iddio è giusto per tutte le cose, savio sopra tutte le cose, perfetto in tutte le cose.
12. Passa altresì gran differenza tra gli stessi uomini. Perché in un modo fu Savio Daniello, del quale è scritto: (Ez. 28.3) Chi è di Daniello più Savio? In un altro savi fli altri. Altrimrenti Salomone, che fu ripieno di sapienza sopra tutta la sapienza degli antichi, e sopra tutti i savi dell'Egitto. Perciò altra cosa è essere Savio comunemente, altra perfettamente. La sapienza di quello che è Savio comunemente, si stende solo circa le cose temporali, per le sue particolari, come è usurpare altrui qualche cosa, e applicarla a se. Quegli che ha la sapienza perfetta, non considera né tiene conto dei suoi comodi, ma con tutta l'affezione aspira a quel che è eterno, che è orrevole ed onesto. Cerca non quello che torna utile a se, ma quello che risiuta in comodo di tutti.
13. Pertanto questa sia la regola e la norma, che noi non possiamo errare tra l'onesto e l'utile: perciò il giusto pensa di non aver a usurpare quello d'altri, né vuole con il danno altrui crescere i suoi comodi, Questa forma ti ordina l'Apostolo quando ti dice: (1Cor 10.22) Tutte le cose sono lecite, ma non tutte stanno bene. Tutte son lecite ma non tutte edificano. Nessuno cerchi quel che è suo, ma l'altrui, cioè nessuno cerchi il comodo suo, ma l'altrui; nessuno vada dietro all'onor suo, ma all'altrui. La dove egli dice in un altro luogo: (Phil. 2.3-4) Ciascuno giudichi l'altro superiore a se, non pensando nessuno a quel che è suo, ma a quel d'altri.
14. Nessuno cerchi di essere onorato o lodato; ma altri. La qual cosa ne fu ancora ampiamente mostrata nei Proverbi, dicendo lo Spirito Santo per Salomone: (Prov. 19.22) Figliolo, se tu sarai Savio, gioverai a te, e ad altri; ma se tu sarai il contrario, nocerai a te stesso solamente. Perciò il Savio giova col consiglio ad altri, come il giusto; con ciò la forma dell'una e dell'altra virtù sia della medesima forza.
CAPITOLO III
15. Chi vuol dunque piacere a tutti in tutte le cose, cerchi non quel che è utile a se, ma quello che è utile a molti, siccome ancora cercava San Paolo. Perciò questo è confermarsi a Cristo;(Phil.2.6) non cercare l'altrui, non usurpare l'altrui per appropriarlo a se: perché il Signore Gesù Cristo essendo in forma di Dio, si abbasso tanto che egli prese forma d'uomo per arricchirla con le virtù delle sue operazioni. Tu dunque spogli quello che ha vestito Cristo? Lo provi in quel che gli ha donato Cristo? Perciò tu fai questo, quante volte tu ti ingegni con l'altrui, danno accrescere i tuoi comodi.
16. Considera uomo dove hai preso il nome; dalla terra, la quale non toglie cosa alcuna a nessuno, ma a tutti dona tutte le cose, ed in servigio di tutti gli animali ne produce diversi frutti. Quindi è detta l'umanità, speciale e famigliar virtù dell'uomo, perché ella aiuta i suoi conforti.
17. Appara dalla forma del tuo corpo, e dall'uso delle membra. Un tuo membro si attribuisce egli l'ufficio di un altro membro, come l'occhio l'ufficio della bocca, o la bocca quello dell'occhio, o la mano si usurpa ella l'esercizio del piede, o il piede quello delle mani? Anzi che ancora le stesse mani destra e sinistra hanno molti uffici distinti; che se tu volessi mutar l'uso dell'una con quella dell'altra, sarebbe cosa contro natura, e prima spoglieresti tutto l'uomo, che tu potessi mutare gli esercizi delle tue membra, come sarebbe volersi imboccare colla man manca o servirsi della man dritta negli esercizi della manca, come nel lavare certi resti di cibi, se già per avventura non lo ricercasse la necessità.
18. Orsù immaginati questo e dà tanta virtù al tuo occhio, che possa levar via il sentimento dal capo, l'udito dalle orecchie, i pensieri dalla mente, l'odorato dalle narici, il sapore dalla bocca e attribuiscano a se; non guasterà egli tutto lo stato della natura? La dove disse bene l'Apostolo: (1Cor 12-17) Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se fosse tutto udito dove sarebbe l'odorato? Tutti dunque siamo un medesimo corpo, e diverse membra, ma tutte necessarie al corpo. Perciò un membro non può dire all'altro io non ho bisogno di te. Anzi che quei membri, i quali paiono più deboli, sono molto più necessari, e il più delle volte hanno maggiore bisogno di esserne guardati. E se per avventura un membro si duole, si dolgono insieme seco le altre membra.
19. La dove quanto è aspro, che noi leviamo via cosa alcuna da quei, in compagnia dei quali abbiamo ancora noi a patire ed inganniamo e siamo di danno a quelli che noi dovremmo sollevare ed aiutare?Questa certamente è la legge della natura, che ad ogni umanità ne spinge, che noi accarezziamo l'un l'altro, come parti di un medesimo corpo. Né facciamo pensiero di usurpare cosa alcuna e con ciò il non giovare altrui sia contro la legge della natura. Perché in tal modo nasciamo, che le membra convengono con le altre e l'uno con l'altro si accostino e l'un l'altro altresì con scambievoli servizi ubbidiscano. Che se uno di loro manca dell'ufficio suo, si impediscono ancora gli altri, esempio se la mano cava un occhio, non ha ella a se medesima negato l'uso dell'ufficio suo? Se ella ferisce un piede dell'utilità di quanti fatti sarà ella stata a se medesima invidiosa? E quanto è egli più aspra cosa far capitare male tutto un uomo, che un membro? Già se egli si viene a guastare tutto il corpo per un membro solo, certamente in un uomo si scioglie la conversazione di tutta l'umanità, si viola la natura della generazione umana e la congregazione della Santa Chiesa la quale cresce in un corpo congiunto e fabbricato con l'unità della fede e della carità. E Gesù Cristo Signore nostro, che è morto per tutti noi, si dovrà ancora che egli si sia perduto il premio del suo sangue.
20. Anzi che la stessa Legge vecchia del Signore ancora insegna a tener questa forma; che per tuo comodo tu non usurpi altrui cosa alcuna, quando ella dice: (Prov. 22.28) Non trapassare i confini antichi posti dai vostri Padri; quando ella comanda che si riconduca( Eso. 23.4) il vitello smarrito del suo fratello; quando ella comanda che i ladri (Levit. 19.13) si ammazzino; quando ella proibisce che si frodi (Levit. 19.13) il mercenario del dovuto pregio; quando ella giudica che si rendano i denari senza usura (Deut. 23.19). Perciò gli è grande umanità sovvenire chi non ha; ma molto maggiore crudeltà voler da altrui trarre più di quel che tu gli hai dato; se perciò il povero ebbe bisogno del tuo aiuto, perché egli non potè pagare col suo: non è egli cosa empia che sotto specie di umanità tu riesca maggiore somma da chi non poteva pagare la minore? Tu sciogli dunque un debitore da altri, per obbligarlo a te, e ciò chiami umanità, laddove egli si vede accresciuto di ribalderia.
21. In questo siamo più eccellenti degli altri animali; che altre specie di animali non fanno conferire cosa alcuna, e laddove le fiere tolgono, gli uomini danno. Laddove il salmista dice: (Sal.36.21) Il giusto ha misericordia e dona. Ritrovasi ancora a chi le ferie conferiscono, con ciò con tale conferimento elle nodriscono la loro schiatta, e gli uccelli saziano col loro proprio cibo la loro progenie; ma all'uomo è dato solamente di pascere tutti come suoi propri. Questo per la stessa legge della natura fare si deve. Che se egli non è lecito il non dare, il togliere come sarà lecito? Né le stesse leggi ce lo insegnano, che impongono che si restituisca tutto quello che è stato altrui tolto o con danno di persona o con acquisto della cosa stessa, per spaventare con la pena il ladro dal rubare o richiamarlo alla con condanna.
22. Concedasi non di meno, che vi sia chi non tema la pena e si faccia beffe delle condanne. È egli forse cosa onesta che alcuno si usurpi l'altrui? Questo vizio e meschino e da uomini vilissimi usitato; ed è tanto contro la natura, che par piuttosto che la povertà spinga ella a sor per forza, che lo persuada la natura. Niente di meno gli uomini di infima condizione commettono di nascosto qualche furto; ma i potenti pubblicamente rubano.
23. E che cosa è egli tanto contro la natura, che violare l'altrui per le proprie comodità, la dove la naturale affezione mostra che tu sei obbligato a vegliare per gli altri, e prendere sopra di te i loro fastidi e ricevere la fatica per loro; e si giudica chi cerca coi propri pericoli la tranquillità di tutti, prenda un'impresa generosa e degna di grandissimo onore e ciascuno si reputi la cosa molto più gioconda di aver cacciato le rovine della Patria, che i propri pericoli e giudichi che cosa sia più eccellente collocare l'opera sua in aiuto della Patria; che se egli è in ozio, avesse consumato la vita tranquilla dietro alla moltitudine dei piaceri.
CAPITOLO IV
24. Quindi si può dire che chi è in tal modo formato ed impegnato dalla natura che egli gli ubbidisce,non può ad altri nuocere. E se nuoce a qualcuno, e viola la natura, non né è tanto il comodo, che egli pensa di trarne, quanto lo scomodo nel quale egli per ciò incorre? Qual giudizio è più severo, che il proprio e dimestico, mediante il quale ciascuno sa di aver sbagliato e riprende se medesimo di avere a torto ingiurato il fratello? Quello che non biasima mediocremente la Scrittura; dicendo: (Prov.14.3) Di bocca degli stolti esce il bastone delle ingiurie. È dunque tacciato di stoltezza colui che fa un'ingiuria. O non si deve egli forse schivar proprio questo che la morte o la perdita o la povertà che l'esilio o il dolore e la malattia? Perché chi è colui che non giudichi più leggero un mancamento del corpo o della roba che un vizio dell'animo o la perdita della reputazione?
25. È dunque chiaro che tutti dobbiamo cercare e mantenere, che l'utile nostro non sia altro, se non quello che giova a tutti; e che noi non dobbiamo reputare utile alcuna cosa, se non quella che comunemente a tutti giova. Perché in qual modo può giovare ad uno quello che a tutti nuoce? A me certo non pare, che chi è ad altri dannoso, possa per se medesimo essere utile: perciò se la legge della natura è una medesima a tutti, una certamente sarà l'utilità di tutti. E se l'utilità di tutti è una, siamo parimenti dalla lagge della natura astretti a giovare a tutti. Non si appartiene dunque a chi vuole secondo l'ordine della natura giovare ad uno, nuocere al medesimo contro la legge della natura.
26. Perciò se quelli, che corrono nello stadio, sono in tal modo ammaestrati ed istruiti, che ciascuno si sforzi di vincere con la prestezza, e non con gli inganni e solleciti alla vittoria col correre; ma non con il gettare gli altri per terra ed urtargli; quanto noi maggiormente dobbiamo cercare la vittoria nel corso della vita senza ingannare o frodare l'altrui?
27. Dubitano alcuni se un savio posto in naufragio potesse stare delle mani una tavola ad uno stolto, che allo stesso modo si trovasse in quel naufragio; se lo debba fare o no. A me di vero, benché comunemente sia tenuto meglio campar dal naufragio un savio, che uno stolto; niente di meno non pare che un cristiano e giusto e savio debba cercare di vivere coll'altrui morte, come quegli che se ancora si desse ad un assassino armato, non può, benché io lo ferisca, ferir lui, perciò mentre egli cerca di difendere la salute, non contamini la pietà. Della qual cosa ne abbiamo nei libri evangelici chiara e manifesta tendenza: (Mt 26.52) Riponi il tuo coltello; perché chiunque col coltello percuoterà, da quello sarà percosso. E qual assassino si deve più detestare, che quel perseguitare che era venuto per ammazzare Cristo? Ma Cristo non volle essere difeso dalle ferite dei persecutori, che con le sue piaghe volle tutti sanarne.
28. Ed in che modo ti reputerai migliore di un altro, essendo l'ufficio del cristiano preferir gli altri, non s'arrogar cosa alcuna, non si usurpare onore alcuno, non attribuire il pregio del suo merito? Finalmente perché non t'avessi a sopportar piuttosto il proprio danno, che toglier l'altrui comodo? Che cosa è egli tanto contro la natura, quanto non si accontenta di ciò che ha, andar cercando l'altrui, e bruttamente cercarlo? Perciò se l'onestà è secondo la natura( perciò Iddio fece tutte quante le cose molto buone) la bruttura certo gli è contraria. Non possono dunque convenir insieme l'onestà e la bruttezza, essendo veleno tra loro per leggi naturali distinte e separate.
CAPITOLO V
29. Ma essendo già tempo di dare ancora compimento a questo libro, nel quale come nel fine della nostra disputa concludiamo, che egli non si deve desiderare altro che l'onesto: perciò il savio non sa cosa alcuna se non quella che sia onesta, né cosa alcuna opera, se non con sincerità, e senza frodi, né sa cosa alcuna, nella quale si è obbligati ad alcun peccato, ancorchè celatamente far lo potesse. Perchè ognun sa il suo errore prima che altri lo sappiano, né tanto si deve vergognare che si pubblichi la sua sceleraggine, che della sua coscienza. Quello che possiamo chiaramente mostrare non con finte novelle, come fanno i filosofi, ma con verissimi esempi di santi uomini.
30. Non fingerò dunque una fessura della terra, la quale sia per grandissime piogge aperta, nella quale fecondochè scrive Platone (lib. 2. de Rep. E Cic. Lib. 3, Offic. c. 4.) scese Gige, e trovovvi quel favoloso cavallo di bronzo, che aveva nÈ fianchi due porte, le quali aperte ch'egli ebbe; pose l'occhio fu di un anello d'oro, che era in dito d'un uomo morto, il cui corpo lì giaceva senza spirito: ed egli avido dell'oro prese l'anello. Ma subito ch'ei fu tornato tra regali pastori, del cui numero era ancor egli, avendo per avventura volta la pietra dell'anello verso la palma della mano vedeva tutti gli altri, ch'È giudicò ammazzare, acciò non gli si contrapponessero, ottenne il Regno di Lidià.
31. Dà, dice, questo anello ad una savio, acciò, col beneficio di quello si possa nascondere quando egli avrà errato. Non fuggirà punto meno la macchia dÈ peccati, che s'ei non potesse celarsi: perché l savio non fonda la sua speranza circa'l non esser punito nÈ nascondimenti, ma nell'innocenza. Finalmente la legge (1Tim. 1.9.) è posta non per i giusti, ma per i malvagi: perciocché l giusto ha la legge della sua mente, e la norma dell'equità della giustizia; e per cotal cagione non s'astiene dal peccare per paura della pena, ma per amor dell'onestà.
32. Adunque per tornare al proposito produciamo non gli esempi favolosi per i veri; ma i veri in cambio dÈ favolosi. Perché qual bisogno ho io di fingere un'apertura della terra, È l cavallo di bronzo, e l'anello d'oro trovato in dito al morto: il valor del qual anello sia tale, che chi l'ha in dito, possa a suo beneplacito essere veduto là dove è vuole; e quando non vuole si possa sottrarre dal cospetto dei presenti, di maniera che essendo egli in un luogo, possa dai circostanti non essere veduto? Perciò questo ad altro non tende, se non a sapere se un savio ancora che egli abbia la comodità di questo anello col quale si possa nascondere le sue sceleraggini e conseguire un regno; e se egli reputerà più grave la macchia della ribalderia, che i dolori delle pene: o veramente se con la speranza di non esser panico se ne servirà a commettere simili sceleraggini. Perché dico ho bisogno di tali novelle, potendo insegnare dai fatti, che quando l'uomo savio non vedesse che solamente doversi restar nascosto il peccato, ma ancora fosse certo di avere, col commettere tal ribalderia, a regnare; e dall'altra banda vedesse il pericolo della salute, se egli si astenesse da cotali scelleraggini eleggerebbe nonostante questi piuttosto il pericolo della salute per non commetterla, che la ribalderia per acquistarsi con essa il regno.
33. Ecco David( 1Reg. 26.2) quando egli fuggiva dalla faccia del Re, quando il Re lo cercava nel difetto con tremila uomini scelti per ammazzarlo; entrato tra le squadre regali e trovato il Re a dormire; non solamente non lo ferì, ma lo difese, e gli fece scudo ch'e non fosse morto da alcuno di quei ch'eran venuti seco. Perché dicendogli Abifai :(Ibid. 8) Il Signore ti ha rinchiuso oggi il nemico nelle manì, io lo voglio da una banda all'altra al presente passare; gli rispose: Non lo toccare perché chi s'insanguinerà le mani del Cristo del Signore; e sarà puro? E soggiunse: Vive il Signore, che se non lo percuoterà egli, o se non giungerà l'ora sua, che muoia o noi non lo ammazziamo nella battaglia, guardami Iddio ch'io non gli ponga le mani addosso.
34. Pertanto non lo lascio ammazzare, ma portò via seco solamente la lancia, che era al capo del Re, ed un vaso d'acqua, dormendo quivi tutti. Uscito dalle squadre salì sulla sommità d'un monte e cominciò a riprendere le guardie del Re, e principalmente Abner capitano della milizia, che egli non faceva fedel guardia al Re e Padron suo; finalmente gli disse che mostrasse dove fosse la lancia del Re e il vaso d'acqua che era al di lui capo. E chiamato dal Re gli restituì la lancia, dicendo: Il Signore renda a ciascuno secondo le opere e la fede sua, siccome Iddio ti ha oggi dato nelle mie mani ed io non mi sono voluto imbrattar nel sangue del Cristo del Signore. E benché egli dicesse cotali parole, temeva nientedimeno grandemente i suoi agguati e fuggì, mutando paese con l'esilio. Né prepose nientedimeno la salute all'innocenza, che avendo altra volta comodità d'ammazzare il Re, non volle godere il beneficio dell'occasione, che a lui temente offriva sicurezza della salute ed apprezzò il regno mentre ch'egli era fuor uscito.
35.Quando ebbe bisogno Giovanni dell'anello di Gige: che se avesse taciuto, non sarebbe stato morto da Erode? Questo gli poteva concedere il suo silenzio, che fosse veduto e non ammazzato. Ma perché egli non acconsentì non solamente di peccar egli per difesa della sua salute, ma non potè ancora tollerare e sopportare l'altrui peccato, eccitò contro di se la cagione della morte. Quei dunque, che dicono che egli non potè essere che Gige si celasse col beneficio dell'anello, non potranno già negare che quest'altro potesse tacere.
36. Ma questa novella, sebbene essa non ha in se forza alcuna di verità, contiene nondimeno questa ragione; che un uomo giusto che ancora si potesse nascondere, schiverebbe non di meno il peccato nel medesimo modo, che se egli non lo potesse nascondere: e che non nasconde la sua persona chi ha in dito l'anello, ma bensì nasconde la vita sua chi si è vestito Cristo, come dice l'Apostolo: ( Col.3.3) Che la vita nostra è con Cristo in Dio nascosta. Nessuno dunque cerchi di risplendere: nessuno si attribuisca arrogantemente, nessuno si vanti. Cristo non voleva esser qui conosciuto, non voleva che il nome suo fosse predicato nell'Evangelo mentre ch'egli era in terra( Luc. 9.36): venne per non essere conosciuto da questo secolo. Noi dunque ancora dobbiamo nel medesimo modo nascondere la vita nostra nell'esempio di Cristo: fuggiamo l'ostentazione, non desideriamo d'essere lodati. Meglio è stare qui in bassezza, quivi in gloria. Quando dice: (Col. 3.4) Cristo si manifesterà, allora voi altresì comparerete insieme seco gloriosi.
CAPITOLO VI
37. L'utilità non possa più in noi che l'onestà; anzi l'onestà vinca l'utile: chiamando però utilità quella ch'è tenuta così secondo l'opinione del volgo. Ammortisci l'avarizia, si distrugga la concupiscenza. Il Santo dice, (Salm. 70.15) che non si è mai intromesso in faccende perché cercare gli accrescimenti dei pregi non è semplicità, ma astuzia. Ed un altro dice : ( Prov. 11.26) Chi aspetta di vendere il grano, ch'è sia in gran pezzo, è da popoli bestemmiato.
38. È stabilita questa sentenza senza lasciar luogo alcuno alle dispute; come suol esser quel modo di dire nei litigi, quando uno vuol mostrare che l'agricoltura deve essere tenuta in pregio appresso di tutti: che i semplici frutti della terra rinterrano; che chi ha seminato più, merita d'esser lodato più: che le fertili entrate dell'industria non son frodate, che si suol biasimar più la negligenza e la trascuraggine di una villa mal tenuta.
39. Io ho arato, dice, diligentemente, il perché ho seminato in maggior quantità, e con maggior studio ho lavorato, ho abbondantemente ricolto, con gran sollecitudine ho riposto, ho lealmente conservato e con gran provvidenza mantenuto. Al presente vendo nel tempo della fame, sovvengo a'bisognosi, vendo il mio grano e non l'altrui: non più che gli altri, anzi per avventura meno. Che frode è questa? Conciò che molti potrebbero andare in rovina s'è non avesser che comperare? Si ha egli a riprendr l'industria? Biasimali forse la diligenza? Debbesi egli però vituperar la provvidenza? Per avventura dirà: e Giuseppe( Gen. 41.34) adunò grani in grandissima quantità e poi nella carestia gli vendé. È egli forzato alcuno a comperar più caro? Usasi egli violenza al comperatore? A tutti ugualmente si propone la copia del comperare ed a nessuno si fa ingiuria.
40. Poiché dunque queste con tutto l'ingegno e saper dell'uno son disputate, si rizza l'altro, e dice: L'agricoltura nel vero in se è buona, la quale ne produce i frutti per ciascuno, e colla semplice industria accumula l'abbondanza delle terre, non interrompendo inganno o frode alcuna. Finalmente se vi sarà mancamento veruno, vi sarà maggiore spesa, perché chi seminerà bene, mieterà meglio: e chi avrà seminato il granel netto del grano, avrà più pura e più sincera la raccolta. La terra fertile raddoppia quel ch'ella riceve, ed il campo fedele suole con non piccola usura render l'entrate.
41. Dall'entrate dunque delle grasse zolle debbi aspettare il frutto della tua fatica, dall'abbondanza del grasso terreno devi sperare i giusti vantaggi. Perché converti tu in frode l'industria e la larghezza della natura? Perché tieni tu con invidia ai servigi degli uomini le pubbliche parti? Perché scemi tu l'abbondanza ai popoli? Perché ti affatichi per la povertà? Perché sei cagione che i popoli desiderano la sterilità? Perciò non pervenendo loro il beneficio dell'abbondanza, ponendo tu il pregio all'incanto e riponendo i grani; desiderano più tosto che niente nasca, che il tuo mercantare colla pubblica fame. Usi ogni diligenza che è fra mancamento di grani e carestia del vitto, ti duoli del parto della larga terra, ti rammarichi della pubblica fertilità, ti rattristi che i granai sian pieni di biade, veletti quando siano più fertili le entrate, più esili le ricolte, ti rallegri che le loro bestemmie abbiano adempiuto il desiderio tuo; cioè che non nascesse cosa alcuna. Allora ti compiaci che sia venuta la tua ricolta, allora della meschinità di tutti ti raguni le ricchezze, e questa chiami industria: a questa hai posto nome diligenza, che è un espressa malizia e manifesta astuzia di frode; e chiami rimedio questo che è un trovato di ribalderia. Ho io a chiamar questo assassina mento od usura? Si scelgono tali tempi, come fanno gli assassini, nei quali tu aspro insidiatore esca ad assaltare le viscere degli uomini. Si accresce il prezzo come raddoppiato dall'usure sopra il capitale col quale si ammonta il pericolo della vita. A te si moltiplica l'usura delle nascoste biade, tu nascondi il grano a guisa d'usuraio, e come venditore lo poni all'incanto. Per qual ragione desideri male ad ognuno e fai che gli abbia a crescere la fame come se non fosse per avanzare biada alcuna e come se l'anno futuro avesse ad essere più sterile? Il tuo guadagno è il danno universale.
42. Il Santo Giuseppe( Gen 41.56) aperse a ciascuno i granai, non gli ferrò, né cercò i pregi delle vettovaglie, ma costituì un perpetuo sussidio, non acquistò cosa alcuna per se, ma con ottimo governo dispose come s'avesse per l'avvenire a cacciar la fame.
43. Voi avete letto, qualmente il Signor Gesù Cristo espose nell'Evangelo questo che andava dietro ai pregi dei grani: la cui possessione aveva prodotti abbondanti frutti; ed egli a guisa di bisognoso diceva: ( Lc 12.17) Che farò io non ho dove riporre queste mie ricolte, rovinerò i miei granai e farogli maggiori, quando non poteva egli sapere se era per vivere la seguente notte o no. Non sapeva che si fare; come se gli avesse avuto a mancare il vitto, stava dubbioso. I suoi granai non eran capaci delle ricolte, ed egli credeva, che non gli mancassero.
44. È però dice Salomone: (Prov.11.26) Chi serva i grani, gli lascerà alle nazioni e non agli eredi, perché l'emolumento dell'avarizia non perviene alle ragioni dei successori. Quel che non si acquista legittimamente è dissipato e portato via dagli strani, non altramente che dalla polvere farebbero i venti; e soggiunse: (Ibid.) Chi incetta le vettovaglie, è maledetto dalla plebe, e quegli che ne fa partecipi i popoli consegue le benedizioni. Tu vedi dunque che gli è convenevole esser liberale dei grani e non accrescitore dei prezzi. Non si deve dunque chiamar utilità questa, nella quale si deroga più all'onesto ch'è non s'accresce all'utile.
CAPITOLO VII
45. Ma a quelli ancora, che cacciano i forestieri dalla città meritano biasimo; cacciate in quel tempo, che si dovrebbe porgere aiuto, separare dai commerci della comune madre, negare i parti per tutti ugualmente prodotti, proibire i già cominciati consorzi del vivere, non voler dividere i sussidi nel tempo delle necessità con quei coi quali sono le ragioni comuni. Le fiere e le bestie reputano, che il vitto che produce la terra sia a tutti comune. Quelle ancora aiutano gli animali della medesima specie; l'uomo gli impugna che debbe credere che ciò che si trova d'umano, gli sia proprio.
46. Quanto meglio fece quegli, che essendo già vecchio; ed essendo la città oppressa da gran carestia, e ( come suole in simili casi avvenire ) volendo già tutti mandare fuori della terra i forestieri; egli sopra il quale più, che tutti gli altri si posava la cura della Città, adunò più onorati, e ricchi cittadini; chiese che ognun dicesse parer suo, e deliberassero, affermando, esser così crudel cosa, cacciar i forestieri, come spogliare ed assassinare un'uomo: quello che fa colui, che nega il cibo a quegli, che muore. Noi sopportiamo che i cani stiano intorno alle tavole senza mangiare ; e mandiam fuori gli uomini? Quanto è disutile ancora che tanti popoli periscano al mondo, i quali fa mancare la crudel fame, tanti capitar male nella lor città, che solevano esser di non piccol aiuto o in dar sussidio, o in esercitar commerci: nessuno porgere aiuto all'altrui fame :differir la carestia qualche giorno, non in tutto cacciarla ; anzi che estinti tanti coltivatori, morendo tanti cittadini periscono in perpetuo le speranze, e gli aiuti delle vettovaglie. Noi dunque escludiamo quelli, che a noi solevano ministrare il vitto? Non vogliamo pascere costoro nel tempo della necessità, che per l'addietro hanno per ogni stagione pasciuti noi? Quante sono le cose, che eglino al presente in questo tempo ne ministrano? (Dt. 8,3. Mt. 4,) Non nel solo pane vive l'uomo. Quivi medesimo è la nostra famiglia, e molti ancora di loro son nostri congiunti. Rendiam quel che noi abbiam ricevuto.
47. Ma noi temiano di non accumular la povertà. Primieramente la misericordia mai è abbandonata, ma sì bene aiutata. In oltre ricomperiamo col conferire, e restauriamo con l'oro le vettovaglie, delle quali ci bisogna far parte a costoro. Forse mancando questi non abbiamo noi necessità di ricomperare altri artigiani e lavoratori? Quanto è egli più utile cosa il pascerli, che il comperarli? Donde ancora gli potrai tu avere? Dove troverai tu uno da dirozzarlo? Oltre che se tu troverai qualcuno, che non sappia fare, e avvezzo a costumi stranieri, lo potrai sostituire ne luogo loro, ma non nelle faccende.
48. Che più? Ragunati da ciascun di loro e fatta somma di danari, si provvidero i grani. Così per questo suo tal consiglio non si scemò l'abbondanza della Città, e si somministrò il vitto a forestieri. Quanto meritò appresso a Dio il santissimo vecchio? Quanta gloria ancora s'acquistò egli appresso agli uomini? Questi veramente si poté dir grande, che poté con verità dire all'Imperatore mostrandogli i Popoli di tutta la Provincia : Costoro tutti ti ho conservato, costoro vivono per beneficio del tuo Senato, costoro dalla tua Corte sono stati già tolti alla morte.
49. Quanto fu più utile questo, che quel che avvenne poco fa a Roma? Che furono cacciati d'una si ampia Città quei, che eran vissuti quivi tanti anni : piangendo si partiron co'figliuoli, dolendosi d'esser rimossi, e mandati come cittadini in esilio ; s'interuppero l'intrinsichezze di molti ; e le affinita si levaron via. E certamente che con gran piacere aveva la larghezza dell'anno favorito ; mancava solo far di grani forestieri provvedimento ; e n'avrebbero avuto, se l'avessero chiesto a quelle Città d'Italia, i cui figliuoli si mandavan fuori. Non è più brutta cosa di questa, che il mandar fuori uno come strano, e riscuoter da lui come s'è fosse proprio. Perchè cagione mandi fuori quello, che si fa col suo le spese? Perché cacci quello, che dà a te il vitto? Tu ti serbi appresso il servo, e mandi via il padre? Tu rapisci per forza il suo vitto, e non gli ne sei grato?
50.Quanto è disutile, e quanto vituperoso questo? Perché in qual maniera può esser utile quello che non è convenevole? Da quanti aiuti di corpi è già per l'addietro stata privata e defraudata Roma? Avrebbe potuto non perdere, ed insieme campare la fame, aspettando i venti prosperi, ed il salvo condotto delle sperate navi.
51. Ma quanto è onesto, ed utile quel ch'io ho di sopra detto? Perché qual cosa si può egli immaginare più bella, e più onesta, quanto che col conferire dÈ ricchi s'aiutino i bisognosi, si ministri il vitto agli affamati : far che non manchi cibo a persona? Che cosa è egli tanto utile, quanto conservare i coltivatori delle terre, non lasciar mancare la moltitudine dÈ villani?
52.Quello dunque che è onesto, è utile : e quel ch'è utile, è altresì onesto. E per l'opposito ancora quello che è disutile, è contro al decoro, e l'indecoroso ancora non è utile.
CAPITOLO VIII
53.Quando sarebbe potuto uscire di servitù i nostri Maggiori, (Es. 12, 34) se eglino non avesser giudicato esser non solamente cosa disonesta, ma ancora meno che utile servire al Re degli Egizi? Giosuè ancora(Nm. 13, 28.) e Caleb mandati a riconoscer la terra riferirono bensì quella essere abbondevole, ma essere da stranissime genti abitata. Il popolo sbigottito dallo spavento della guerra ricusava la possessione di quella terra.
54.Giosuè, e Caleb, che furono mandati per spiare, persuadevano, che la terra fosse utile : riputavano cosa obbrobriosa cedere alle nazioni ; piuttosto eleggevano d'esser lapidati secondo chè dal popolo n'eran minacciati, che partisci dall'onesta. Altri (Nm. 14,6.) ne sconfortavano, la plebe gridava, dicendo d'aver a far guerra con genti aspre e selvagge ; che perirebbero nella guerra; che le donne loro, de i lor figliuoli sarebber saccheggiati.
55.Fuor di misura s'infiammò l'ira di Dio, volendo rovinar costoro, ma alle preghiere di Mosè mitigò lo sdegno, differì la vendetta, giudicando di punir bastevolmente la perfidia loro ; che sebbene ci perdonava loro in questo mezzo, né percuoteva i non credenti ; faceva nondimeno che eglino mai si conducessero a quella terra, ch'ei avevan ricusata; e questo per demerito della loro incredulità ; ma i fanciulli, e le donne, che non avevan contro di lui mormorato, che o per il sesso, o per l'età meritavan perdono, prendessero la tanto promessa eredità di quella terra. Finalmente quelli che passavan vent'anni, lasciarono le membra loro nel deserto, ma agli altri fu differita la pena. E quelli, che essendo vi saliti con Giosuè ne sconfortarono il popolo, subitamente di gravi piaghe morirono. Ma Giosuè e Caleb coll'innocente età, o sesso entrarono insieme nella terra di promessione.
56.La miglior parte dunque di loro prepose la gloria alla vita; la peggiore per l'opposito preferì la vita all'onesta. Ma la sentenza divina approvò quel, che giudicavano, che le cose oneste fossero anteriori alle utili, e quei condannò, che preponderavano quelle cose, che parevan più comode per la salute, che per l'onestà.
Correzione del testo di Googlebooks a carico di: Giambattista Conti, Tullio Trapani, Antonio Facco, Tommaso Fontana, Giovanni Maggioni, Andrea Vignati, Alessandro Flamini Ottaviani, Luca Ruggeri, Ivan Quintavalle.